Il ritorno alla fase acuta della pandemia costringe a ripensare e giudicare con
profitto quanto messo in campo nei mesi della prima emergenza. Lo stress test ha
determinato un aumento dell’efficienza operativa dell’ospedale nel suo complesso. E un team multi-disciplinare costituito da medici ospedalieri e universitari dell’Università degli Studi di Brescia ha contribuito in maniera significativa alla produzione di dati scientifici finalizzati alla definizione di standard diagnostici e terapeutici condivisi in un momento emergenziale, dove questi erano del tutto assenti.
Anche adesso permangono le complessità in particolare nelle terapie di contrasto al virus; tuttavia un aumento dell’efficienza operativa dell’ospedale nel suo complesso consente di intervenire con una più chiara consapevolezza. L’esperienza degli Spedali Civili di Brescia. Dove ognuno ha imparato da tutto e da tutti. Laddove l’impegno con la realtà ha prevalso sugli schemi standard. Così non ne è nato un modello, piuttosto un modo di guardare al paziente e tra colleghi teso allo scopo della cura.
Guardare
L’esposizione dei professionisti, medici, infermieri, operatori sociosanitari a pazienti completamente nuovi e con quadri nosologici non definiti ha obbligato tutti a porsi di fronte al bisogno di sostenersi e correggersi. Nessuno ha potuto avere cura dei pazienti Covid indipendentemente dal collega, che fosse più o meno esperto, ospedaliero o universitario, medico o infermiere. Ognuno ha imparato da tutto e tutti e l’impegno con la realtà ha prevalso sugli schemi standard. Non ne è nato un modello, ma un modo di guardare al paziente e tra colleghi, teso allo scopo della cura.
Ci si chiede: ma non dovrebbe essere sempre così? In altri termini, non dovrebbe essere centrata – la cura – solo sul paziente e il suo bisogno di salute? Quello che, al di là delle polemiche legate alla gestione della pandemia, ci interessa evidenziare è che la vera normalità della cura è che ciascun professionista si deve cimentare quotidianamente con il mistero della vita e della morte e non solo nei casi estremi o emergenziali.
La posizione libera di fronte all’imprevisto che accade fa scatenare la libertà che diventa creatività, scienza, cura, che mette insieme e unisce. Tale posizione umana e professionale risponde alla concretezza del bisogno della persona in quel momento, alla società e all’indomabile desiderio di chi opera in sanità di ricomprendere ogni volta il significato del proprio agire. È all’altezza dell’Uomo. Ma occorrono occhi per guardare, un’apertura dell’intelligenza per curare, libertà di costruire.
Costruire. Cos’è accaduto nella front-line
Scriveva circa a metà dello scorso marzo, in un biglietto, il collega Direttore del Dipartimento di anestesia, rianimazione, emergenza e urgenza degli Spedali Civili di Brescia: “Era necessario che l’eroico diventasse normale, quotidiano, e che il normale, quotidiano, diventasse eroico”. Una frase di san Giovanni Paolo II riferita a san Benedetto mi è riemersa nella memoria all’inizio dell’epidemia da Covid-19. Mi sembra che l’impegno richiesto a noi medici, infermieri, operatori sanitari, ma anche a ogni singolo cittadino, si riassuma in questa affermazione. Non è l’esaltazione della persona come eroe, ma la straordinarietà dell’evento, oggi è la pandemia Covid-19, che chiede all’uomo, al professionista di superare i propri limiti, i propri egoismi, i propri interessi, per arrivare ad affermare che siamo capaci di guardare al di là del nostro limite. Viviamo questa esperienza in modo “eroico”. Consapevoli che in questa prova si gioca non solo una capacità di efficienza e di efficacia ma il vero senso dell’umano.
Oltre 3200 pazienti sono stati trattati con punte di presenza massima nell’Azienda sociosanitaria territoriale degli Spedali Civili di Brescia con oltre 900 pazienti contemporaneamente presenti, coinvolti direttamente nella cura più di 4500 operatori. Per migliaia di pazienti cronici, anche in collaborazione con medici di medicina generale, sono stati attivati servizi di telerefertazione e teleconsulto, che solo poche settimane prima parevano irrealizzabili a causa dei lacciuoli previsti dai pur giusti sistemi di garanzia della privacy et similia.
Con la loro capacità di tempestiva innovazione, Spedali Civili risultano essere la struttura del SSN che nei mesi di marzo e aprile ha accolto più pazienti Covid-19 del nostro Paese e, quasi sicuramente, d’Europa, ma senza essere travolta e, va detto, continuando a fornire servizi sanitari a elevatissimo valore aggiunto ad esempio per le patologie tempo dipendenti, attivando soluzioni organizzative innovative già dalla prima settimana di marzo u.s., come il pre-triage di Pronto Soccorso, consentendo di essere accolti in modo adeguato in attesa dei risultati della diagnostica e del test molecolare all’epoca scarsamente disponibile e richiedente diverse ore di attesa. Oppure come il drive-through per il tampone nasofaringeo, che riceve da mesi migliaia di pazienti con flusso regolare, arricchito da ambulatori delle Unità Speciali di Continuità Assistenziale (USCA) che provvedono a un eventuale inquadramento dei pazienti paucisintomatici filtrando l’invio presso il Pronto Soccorso.
Di fronte a pazienti con le più diverse condizioni cliniche, affetti da un quadro sconosciuto, ma con presentazione clinica inizialmente non chiara e spesso sfumata, ma sempre più grave e urgente, tutto il personale ha lavorato insieme senza più guardare alle appartenenze alle diverse unità operative dell’Azienda e/o Universitaria o al “grado gerarchico” collaborando, imparando gli uni dagli altri, perdendo la nozione del tempo, staccandosi per lunghi periodi dalla propria famiglia per proteggerla, diventando famiglia acquisita per i pazienti ricoverati posti in isolamento strettissimo, adottando pratiche di pietas per i defunti. Uno spettacolo professionale e di umanità che ha stupito ciascuno e ha evidenziato la cifra di cui la nostra Azienda è costituita.
La questione complessa della terapia
La terapia dell’infezione da Sars-CoV-2 rappresenta ancora oggi una tematica controversa e sottoposta al vaglio della comunità scientifica internazionale, in quanto solo recentemente sono stati resi disponibili i primi trial terapeutici controllati finalizzati alla valutazione dell’efficacia delle singole molecole sinora proposte. L’infezione non causa in tutti i soggetti infetti le stesse manifestazioni cliniche, che possono variare dalla completa asintomaticità a quadri gravi, fino all’insufficienza respiratoria acuta e alla morte in rapporto spesso a variabili quali l’età, le co-morbilità di cui possono soffrire i singoli individui e, probabilmente, la carica virale infettante.
Inoltre, nei soggetti che progrediscono verso i quadri clinici più avanzati, la patologia segue un decorso multifasico, che inizia con una fase virale cui segue una risposta immunitaria disregolata, che è responsabile dei quadri clinici più gravi, soprattutto a carico dell’apparato respiratorio, del cuore, dei reni, della coagulazione e di altri organi e sistemi corporei.
Il panorama terapeutico è stato ed è dunque complesso e variegato nei singoli individui e nelle differenti fasi di malattia. Presso gli Spedali Civili di Brescia, un team multidisciplinare costituito da medici ospedalieri e universitari dell’Università degli Studi di Brescia ha contribuito in maniera significativa alla produzione di dati scientifici finalizzati alla definizione di standard diagnostici e terapeutici condivisi in un momento emergenziale dove questi erano del tutto assenti.
L’approccio terapeutico dell’infezione da Sars-Cov-2 non si è limitato alla terapia antivirale in base alle conoscenze del tempo (idrossiclorochina, remdesivir) o anti-infiammatoria (desametasone, tocilizumab), ma si è esteso a comprendere, prevenire e trattare le complicanze tromboemboliche, cardiovascolari, neurologiche e nefrologiche che spesso rappresentano delle temibili evenienze cliniche in questi pazienti.
L’équipe multidisciplinare ha messo a punto uno score di gravità dell’insufficienza respiratoria denominato Brescia Covid Respiratory Severity Scale che ha avuta ampia diffusione internazionale. Inoltre, gli Spedali Civili di Brescia hanno partecipato in maniera significativa nel fornire risposte scientifiche relative alla necessità che i farmaci antiipertensivi inibitori del sistema renina-angiotensina (ACE inibitori, sartani, sacubitril valsartan) e i betabloccanti non siano sospesi durante l’infezione da Sars-Cov-2 di grado lieve e moderato. In considerazione del rischio di trombosi arteriose e venose associato alla malattia da Sars-Cov-2 è inoltre consigliato l’uso di eparina a basso peso molecolare per via sottocutanea a dosi profilattiche. Il lavoro dei ricercatori degli Spedali Civili di Brescia e dell’Università di Brescia ha consentito di acquisire elementi clinici e patogenetici innovativi sulla predisposizione a sindromi encefalitiche nei pazienti Covid, che ha permesso un trattamento innovativo ed efficace. Dal primo marzo al primo ottobre sono stati publicati oltre 120 studi.
È parso evidente un passaggio chiave: ripensare l’ospedale in funzione di ciò che accade considerando che le precondizioni richiedono una tempestività di intervento, con un aumento dell’efficienza operativa dell’ospedale nel suo complesso e una massimizzazione della produttività nelle attuali condizioni socio-economiche.
L’esperienza ha messo in luce i principi cardine alla base degli interventi da attuare e cioè, come evidenziato in precedenza, la centralità “reale” del paziente, la necessità di una assoluta coerenza tra bisogno di salute e setting clinico e assistenziale, la necessità di una maggiore integrazione clinica e assistenziale.
Come rendere più adeguato e appropriato allo scopo il processo assistenziale ospedaliero
Un elemento fondamentale per la riorganizzazione ospedaliera è il disaccoppiamento dei letti dalla disciplina e la riconfigurazione delle unità di ricovero sulla base del processo assistenziale (medico o chirurgico, di bassa, media o elevata assistenza e/o intensità clinica), rivolto a pazienti Covid-19 negativi o Covid-19 positivi: bisogna passare dai “miei letti” ai “miei malati”, con la costituzione di piattaforme logistiche e di ricovero condivise che consentano l’erogazione di prestazioni semplici o complesse da parte dei professionisti che operano sull’intera struttura e che sono mobilitati su base programmata o al bisogno. Un’organizzazione di questo tipo consente di avere cura dei pazienti secondo protocolli interprofessionali e multidisciplinari, unici a consentire nel contenuto della cura e nel metodo di considerare la condizione del paziente per come realmente è e di utilizzare il migliore know how professionale.
A tali elementi deve associarsi la personalizzazione del processo delle cure: il medico e l’infermiere di riferimento per ogni paziente durante il ricovero. Occorre ripartire da quel che c’è per cambiarlo. La vera risorsa del cambiamento è la persona (chi cura, chi assiste, chi organizza), non sono i modelli organizzativi (i modelli sono strumenti, piste di lavoro).
I nuovi modelli che si affacciano nell’organizzazione dei servizi sanitari (organizzazione degli ospedali per aree di degenza, per intensità di cura, medico tutor, le piattaforme assistenziali, le Reti, le Case della Salute, i PDTA, il potenziamento dell’assistenza domiciliare, ecc.) dovranno essere funzionali agli obiettivi, allo scopo delle nostre strutture: avere cura della persona. Possono essere sperimentati con successo solo se chi deve attuarli intravede in essi un’opportunità per migliorare.
Le ricadute nella pratica dei nuovi modelli che si stanno implementando porteranno a cambiare:
• le modalità di collaborazione e integrazione con altri specialisti e con altri professionisti (lavoro in team)
• il perimetro dell’azione e delle responsabilità dei professionisti (dai “miei letti” ai “miei pazienti”)
• il ruolo di chi dirige le équipes (compito di garanzia e sviluppo delle competenze professionali dell’équipe, presidio dei percorsi e valutazione sistematica degli esiti).
Per ricostruire il contesto, perché i professionisti siano protagonisti e partecipino attivamente all’azione organizzativa, come accade sempre più frequentemente e ubiquitariamente almeno dall’inizio della pandemia, occorre un lavoro di approfondimento, analisi, confronto, disponibilità a valutare e farsi va-lutare.
Il coraggio di dire “io”
È necessario un cambiamento culturale in tutti noi: dare priorità a ciò che serve con tempestività di azione, guardando in faccia il bisogno e tutto quello che c’è, riorganizzando l’attività a partire dallo scopo, difendendo tutto ciò che è essenziale e rispondere allo scopo del lavoro con cui ognuno contribuisce alla cura. Di fronte alla crisi si è chiamati a una maggiore responsabilità, a essere protagonisti, disponibili a mettersi in gioco e a cambiare, tenendo presente la finalità del lavoro perché è la tensione a rendere quel che si fa più rispondente allo scopo che muove a cercare le risposte più adeguate tra quelle possibili.
La responsabilità è su quello che si ha di fronte e che dipende dalla nostra azione. Per cambiare occorre metterci del proprio. Responsabilità non coincide con autonomia; la responsabilità porta a un legame maggiore con ciò che abbiamo tra le mani, a interagire, a cercare soluzioni e proporle. Per questo bisogna puntare sulla collaborazione e il confronto in quanto è l’équipe che cura.
La qualità delle cure che eroghiamo è strettamente legata alla capacità di intervenire insieme di molti professionisti e alla organizzazione complessiva del percorso di cura, ma richiede un approccio multi professionale e multidisciplinare, disponibile al confronto con le migliori pratiche in campo internazionale.
Questo è accaduto, ma non va perso e deve essere capitalizzato come modalità di approccio “normale” alla cura e alla sua organizzazione. Il rischio del ritorno elastico allo status quo ante è, seppur comprensibilmente legato al lungo e prolungato stress al quale sono sottoposti professionisti e organizzazioni, elevatissimo e comporterebbe il passaggio dalla drammaticità dell’accaduto alla tragedia di aver sprecato l’esperienza non avendo imparato nulla.
Nessuno si salva da solo
“L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina”
Hannah Arendt, Tra passato e futuro.
Alcuni coordinatori infermieristici hanno sottolineato: “[…] Quindi, il punto è questo, trattare l’emergenza Covid-19 con un linguaggio bellico, trattare la malattia come fosse una guerra, ci rende ubbidienti, docili e, in prospettiva, vittime designate. Parlare di guerra, di invasione, di eroismo, con un lessico bellico ancora ottocentesco, ci allontana dall’idea di unità e condivisione di obiettivi che ci permetterà di uscirne. Non è una guerra e questo di oggi è il tempo della vicinanza e della solidarietà e noi, i nostri collaboratori, e tutti i professionisti impegnati nell’emergenza Covid-19 lo abbiamo capito da subito e, da subito, ci siamo aiutati e sostenuti. Nessuno di noi è stato obbligato, nessuno di noi ha ricevuto ordini di servizio (né verbali, né scritti)”.
Nessuno si salva da solo. Nessuno salva, da solo. Nessuno può curare, da solo. Sarebbe un peccato gravissimo sprecare quanto accaduto – e sta ancora accadendo – non accogliendone, dalla drammaticità, una provocazione per il cambiamento.
Ma è necessario un nota bene. Mai come ora è evidente che ciascuno dipende, oltre che dal suo comportamento, anche da quello degli altri, ma che lui non è in grado di condizionare. Esempio evidente di questo è la protezione dal contagio con l’uso delle mascherine: perché sia realmente efficace dobbiamo indossarla entrambi, io dipendo da te e tu da me. La riduzione del rischio dipende da un comportamento reciproco. Questo implica una mossa della libertà verso la responsabilità personale: è una questione di educazione.
Ma il Bene straborda e travalica le nostre attese. L’oggettiva gravità della situazione “stana” l’umano: persone che non si risparmiano, che alla richiesta di supportare altri ospedali scattano letteralmente in piedi e si mettono a disposizione. Quelli che scrivono colpiti dal messaggio che hai inviato e che vorrebbero rientrare in servizio (a casa contagiati con la febbre) perché gli manca stare lì. Si rischia la pelle, con paura ma con ardore. Però questo è possibile stando insieme, dicendosi la verità, che si impara continuamente essere preconoscenza della Verità, quella grande che tiene insieme tutto. In questa dolorosa paura il Bene emerge prepotentemente nell’impegno con la vita, come mi scrisse una sera (nel mesedi marzo scorso) un collega: “Alcuni mi chiedono di poter fare il test (il tampone molecolare, ndr) per loro tranquillità familiare ma temono di non poter più lavorare e dare il proprio aiuto laddove il test risultasse positivo. E dunque si genera un conflitto tra il timore di infettare i propri cari e il forte senso del dovere che mi commuove e di cui sono orgoglioso. Buona notte a tutti”.
Cos’è questo “forte senso del dovere”, se non il tentativo di colmare la nostalgia di bene attraverso l’impegno con la vita? Ma da soli non ci si salva, bisogna stare insieme. Stare insieme davanti alla sfida, alla paura per i pazienti e al non riuscire a curarli come si vorrebbe, alla paura per sé e i propri cari, è una occasione di ripartenza della Verità.
Esserci, giorno e notte (letteralmente), gomito a gomito appena possibile per condividere questo Spettacolo. Altro che eroi.
“I pescatori sanno che il mare è pericoloso e le tempeste terribili, ma non hanno mai considerato quei pericoli ragioni sufficienti per rimanere a terra”
Vincent Van Gogh.