La pandemia che stiamo vivendo si è imposta come un flusso irruente. Nello spazio e nel tempo. Dunque, diversa da altri drammi, come i terremoti o le alluvioni. La sua imprevedibilità ci ha costretti a un’esperienza traumatica che non conoscevamo. Né l’Italia e neppure il mondo erano pronti ad affrontarla.
La stiamo fronteggiando mentre è in corso. Tra lutti e criticità. E limitazioni alla nostra vita e convivenza. Questa enorme vicenda ha fatto emergere l’esigenza di un sistema sanitario più strutturato. Dove la collaborazione fra pubblico e privato sia per costruire un modello di sviluppo sistemico equilibrato. Nella consapevolezza che, sempre, la salute viene prima del mercato.
La pandemia da Coronavirus è la più grande emergenza che ha colpito il mondo dal dopoguerra a oggi. I numeri, in continuo e preoccupante aggiornamento, raccontano una situazione ancora molto complessa, pur con l’avvio dell’attesa fase dei vaccini.
Le caratteristiche di questa emergenza che ha riscritto la cronaca, anzi la storia e ha profondamente rivoluzionato i nostri comportamenti, hanno tratti di peculiarità che è bene sintetizzare: sia per comprenderne la portata sia per capire la responsabilità che tutti noi cittadini abbiamo nel partecipare alla gestione di una fase assai difficile perché ancora, purtroppo, pericolosa.
Un flusso tragico e irruente, non solo un drammatico evento
La pandemia è certamente un evento drammatico ma non ha le medesime peculiarità degli altri drammi che, purtroppo, siamo in qualche modo abituati a vivere.
Provo a spiegarmi. Il mondo, si ritrova periodicamente a dover fare i conti con eventi luttuosi assai dirompenti: un terremoto, un’alluvione, il crollo di un’infrastruttura. Sono accadimenti con caratteristiche che li accomunano. Durano generalmente pochissimo e lasciano una condizione tragica ma statica davanti alla quale ci siamo attrezzati trovando le strade per intervenire e tentare di porvi rimedio. Dopo un terremoto, che dura una manciata di secondi, l’immagine che ci viene restituita purtroppo la conosciamo bene: vittime, feriti, case crollate, macerie dappertutto, infrastrutture che non ci sono più. E un silenzio assordante. Ma subito sappiamo qual è il fotogramma successivo: i soccorsi giungono sul luogo, scavano nelle macerie per salvare vite, montano tende e costruiscono qualche fabbricato provvisorio per rimettere le comunità nelle condizioni di tornare a vivere civilmente.
Invece il Coronavirus si è imposto come un flusso irruente, senza limiti nello spazio e neppure nel tempo. Ha prodotto – e ancora ogni giorno produce – effetti che il giorno prima non si erano verificati e la cui natura, la cui localizzazione, la cui gravità non sono prevedibili. Sono caratteristiche che non consentono di trovarsi di fronte a una situazione statica. È l’imprevedibilità il tratto più evidente dell’esperienza traumatica che ci consegna la pandemia e che siamo costretti a vivere.
Non un evento. Statico e terribile. Ma un flusso di eventi. Continui, differenti e devastanti.
Nessun luogo del mondo era pronto ad affrontare un’evenienza simile. Tantomeno l’Italia. Abbiamo imparato e stiamo ancora imparando, in una corsa continua contro il tempo, a capirla un po’ di più e, quindi, a cercare di fronteggiarla nel contesto di una realtà che è tornata a essere molto drammatica.
Protagonisti: gli italiani
L’Italia ha pagato e continua a pagare un tributo molto alto di morti, un prezzo enorme. Oggi l’epidemia è tornata a essere molto aggressiva e lo sarà fino a quando non si troverà un vaccino. In questi lunghi e dolorosi mesi abbiamo imparato il senso di responsabilità. E a scoprire il valore della libertà. Questo vale per tutti gli attori: gli individui, le comunità, le istituzioni, il variegato mondo delle nostre imprese; ma, in modo particolare, vale per i giovani. È ovvio che le restrizioni cui siamo tutti chiamati possono sembrare insormontabili per i nostri figli. Non uscire, non assembrarsi, non socializzare. Ma tutti dobbiamo sforzarci di continuare a vivere nella buona pratica dell’equilibrio ragionevole tra libertà e responsabilità. È l’unica strada da praticare in questa dura fase di convivenza con il virus.
Occorre – e adesso ancor di più – prendere atto di quel che la realtà ci pone innanzi e cioè che il virus, di fatto, non ci ha mai abbandonati. È la prima considerazione che deve sostenerci, un pilastro di ragionevolezza e lungimiranza che tutti noi dovremmo tenere presente.
Il virus, dobbiamo ripetercelo, finirà quando nel mondo saranno disponibili miliardi di vaccini: sia perché qualcuno li produce, sia perché miliardi di cittadini del mondo possano vederseli somministrati, possibilmente a un prezzo pari a zero o poco più.
Oggi l’epidemia permane aggressiva e bisognerà mantenere tutti alta l’attenzione anche durante la lunga fase di somministrazione dei vaccini.
Con il Covid e dopo il Covid: cosa fare del SSN In questi lunghi e terribili mesi è stato fatto uno sforzo di notevoli proporzioni, ma figlio dell’ansia e dell’emergenza. All’inizio dell’emergenza, in Italia avevamo 5179 posti letto in terapia intensiva, in Germania ce n’erano 30.000.
Nel picco più alto dell’emergenza ne avevamo 9447, quasi il doppio. All’inizio dell’emergenza, avevamo 6525 posti nei reparti di malattie infettive e strumentali per poter accogliere i pazienti in terapia sub intensiva, al picco ne avevamo 35.000, quasi sei volte di più.
La strada migliore per rispettare e ricordare per sempre gli italiani che sono morti a causa di questa tragedia, è quella di lavorare per dotare il nostro Paese di una condizione infrastrutturale e strutturale della sanità diversa e migliore di quella che abbiamo trovato all’inizio dell’emergenza.
Il nostro sistema sanitario è oggetto di un impegno finanziato da investimenti che il governo e il ministro della Salute hanno fatto in materia di rafforzamento della rete ospedaliera postCovid per dotare le terapie intensive di 3600 nuovi posti letto.
La drammatica lezione della fase acuta dell’emergenza ha esplicitato criticità che andavano affrontate per fronteggiare meglio fenomeni epidemiologici così aggressivi e inaspettati.
La crisi da pandemia ha dimostrato come i disinvestimenti in sanità sono il risultato semplice di una scelta che il nostro Paese ha fatto negli ultimi anni. Si è troppo insistito sul nostro stato patrimoniale e troppo poco sul nostro conto economico. Ci si è occupati troppo di sistemare la questione del debito accumulato, per non lasciarlo colpevolmente alle generazioni successive, senza peraltro riuscirci, e troppo poco del nostro prodotto interno lordo e ci siamo soprattutto dimenticati – in qualche caso colpevolmente – che le aziende e le nazioni riescono a ridurre i debiti con i maggiori ricavi; quanto più prodotto fanno e non, semplicemente, tralasciando di fare gli investimenti necessari negli ambiti strategici per la vita delle loro comunità.
Oggi noi produciamo oltre 30 milioni di mascherine chirurgiche al giorno e possiamo così anche restituire ai cittadini del mondo i supporti e gli aiuti che abbiamo ricevuto dall’estero all’inizio dell’emergenza.
Prima tutelare la salute, poi il mercato
In merito al tema quanto mai attuale della sostenibilità mi soffermo su due considerazioni. La prima: il nostro Paese non ha mai praticato lo sviluppo a tutti i costi, come invece gli indicatori del prodotto interno lordo dell’Italia degli ultimi dieci anni ci porterebbero a dire.
La seconda: purtroppo la libertà del mercato ha un limite insormontabile che è il diritto alla salute. L’esperienza da Commissario straordinario per l’emergenza Covid mi ha portato a toccare da vicino questo limite e a fare scelte conseguenti che all’inizio sono state anche criticate: penso al prezzo calmierato per le mascherine, fissato per contrastare la vergognosa speculazione che era in atto. Quando si tratta di assicurare il diritto alla salute dei propri concittadini non c’è libertà di mercato che tenga. È fondamentale prima tutelare la salute e poi tutelare il mercato.
Dunque, lo sforzo che dobbiamo continuare a praticare, tesaurizzando l’esperienza di questa emergenza per il prossimo futuro e per le prossime generazioni, è quello di tendere a un equilibrio ragionevole tra il bene e l’interesse pubblico, tra l’intervento pubblico e l’impresa privata, tra le dinamiche del mercato e le traiettorie della globalizzazione. Questi equilibri troppo spesso sono stati disattesi, addirittura dimenticati. Un mancato mpegno che certo non ha riguardato solo il nostro Paese. Ma, per restare all’Italia, occorre evidenziare come il perseguire un rapporto virtuoso tra pubblico e privato sia stato accantonato negli anni precedenti questa emergenza.
Lo ripeto, quel che stiamo vivendo ci deve servire anche a un ripensamento complessivo del sistema sanitario per promuovere un modello di sviluppo equilibrato, che permetta di costruire i posti di terapia intensiva che servono. Senza però che tale obiettivo venga perseguito a discapito del libero mercato.
L’autorità pubblica deve essere presente per assicurare il controllo, tuttavia è impensabile che la prevenzione e il contrasto a future pandemie possano avvenire impedendo che la competizione globale produca i propri effetti
La comunità e la convivenza con il virus
In questo anno così difficile i cittadini hanno dimostrato di avere un marcato senso di comunità che molti ritenevano perduto per sempre. Forse lo si era accantonato o dimenticato. L’impatto drammatico della pandemia lo ha ridestato. Ci siamo sentiti solidali, responsabili, parte di un tutto più grande e da custodire con cura. Sarà stata la paura, o la speranza, certamente questo è il risultato di sentimenti profondi che ci hanno tenuti tutti insieme. Questo ritrovato spirito di comunità merita di essere riconosciuto, conservato, preservato, accompagnato. Insomma, si tratta di un processo che va capitalizzato. Sarà la ritrovata centralità del sentirsi parte attiva e dunque protagonista del soggetto comunità la principale leva del possibile e auspicato rilancio del Sistema Paese; che dobbiamo certamente vivere, pianificare e implementare, anche mettendo in atto le necessarie correzioni, guardando agli errori fatti nel passato per non ripeterli.