Nuova Atlantide N.12 - Giugno 2024
Guardando alla situazione internazionale e addentrandoci nei singoli Stati nazionali, possiamo stendere un lunghissimo elenco di problemi tragici, drammatici, gravi e irrisolti. È ormai quasi scontato che ci si trovi di fronte a una grande crisi delle democrazie, anzi – per dare più enfasi a questo concetto – alla “crisi della democrazia” nata in Occidente.
In fondo, questo è un incubo per chi, giovane nell’Europa occidentale del Novecento, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, poteva respirare quel clima di relativa tranquillità sociale che garantiva espansione economica e lavoro, quindi scalate sociali soddisfacenti, ma soprattutto riconoscimento dei diritti umani e libertà.
In definitiva, anche in Italia, dal dopoguerra fino agli anni Settanta, la democrazia non era solo apprezzata, ma soprattutto non era mai stata messa in discussione ed era fortemente partecipata sia attraverso le consultazioni elettorali, ma anche per mezzo delle attività dei partiti, con le sezioni di grandi partiti di massa in quasi tutti i paesi della penisola e, infine, attraverso l’attività di circoli di grande tradizione culturale, che garantivano un legame quasi indissolubile in tre aspetti principali della vita civile: la conoscenza della storia, l’apprendimento di una cultura e la vita reale in uno dei suoi aspetti più importanti cioè la politica.
In qualsiasi dibattito in qualsiasi piccolo centro della periferia di Milano, potevi discutere dei problemi comunali o di quelli legati al lavoro, in un ricordo sinceramente autocritico anche dell’esperienza fascista e, quindi, della storia della Resistenza italiana, con precisione e senza dimenticanze “interessate”.
Lo scioccante paradosso di Churchill
Quindi, con il ricordo del capo (oggi completamente dimenticato o forse ignorato volutamente, Alfredo Pizzoni) del Comitato di Liberazione Nazionale ; dei “patti di Roma” del 1944, che tra Pizzoni, Giancarlo Pajetta, Edgardo Sogno, Ferruccio Parri – su suggerimento del ministro plenipotenziario inglese Harold McMillan – decisero la tattica militare finale della lotta di Liberazione al fianco degli alleati della V e dell’VIII armata, della “diaria” ai partigiani, della necessità degli aiuti; infine della Liberazione che arrivò, pur con i suoi errori e i suoi orrori, ma anche con la gioia di partecipare come cobelligeranti a una grande vittoria storica.
Al termine di quei ricordi e di quelle discussioni, c’era pure il tempo di dialogare del futuro della pace nel mondo, dello sviluppo globale e della nuova collaborazione tra i popoli mentre avveniva la decolonizzazione di quello che allora veniva chiamato il “Terzo Mondo”.
Oggi, ripensando a quel periodo di speranza, vengono i brividi alla schiena quando si sente parlare di crisi della democrazia – anche se i politologi parlano sempre della democrazia come di un sistema “sempre in crisi” – e non si dimentica mai un uomo come Winston Churchill, che la democrazia l’aveva salvata da Hitler. Churchill sosteneva ironicamente: “La democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate sinora”. Il paradosso era scioccante, ma anche realistico, per come si era vissuti e per come si viveva anche dopo la Seconda guerra mondiale.
In Europa, tre Paesi come Spagna, Portogallo e Grecia erano retti da dittature, in Sud America si parlava dell’Uruguay come di “una Svizzera in un mare di autocrazie, dittature e populismi” e al di là di Berlino, dove regnava l’impero dei Soviet, si era già conosciuto da ragazzi la tragedia di Berlino, quella dell’Ungheria, poi quella della Cecoslovacchia, fino ad arrivare alla Polonia.
Insomma, se in Italia si faceva finalmente l’esperienza di una democrazia solida, a livello internazionale con Stati Uniti e Occidente, si parlava già e quasi sempre di “democrazia in crisi”, sebbene quella inglese avesse già compiuto trecento anni e quella americana 250.
Il problema che affronteremo più dettagliatamente è che la democrazia è destinata a cambiare continuamente, spesso anche nelle sue istituzioni, per stare al passo con i rivolgimenti sociali epocali, per il periodico mutamento del modo di produrre e di lavorare (pensate solo alla fabbrica e alla società fordista e a quella tecnologica di oggi), per i cambiamenti sociali che si affacciano chiedendo sempre rappresentanza e nuovi diritti, per la scomparsa e l’emersione di nuove classi sociali.
Il rilancio “democratico” delle oligarchie
Le difficoltà che avvertirono in molti in altri tempi e quelle che si avvertono più che mai ora, erano presenti anche a uomini di pensiero come Joseph Schumpeter, il quale, nel suo famoso Capitalismo, socialismo e democrazia, sosteneva che tra le condizioni per il funzionamento corretto di una democrazia vi fosse anche “l’autocontrollo democratico”, cioè la rinuncia a manifestazioni, petizioni e pressioni di altro tipo, sull’operato degli eletti.
Un pensiero copiato per giustificare una nuova politica. Infatti tutto questo emerse di nuovo, ma con premesse diverse, da uno studio del 1975 di Michel Crozier, Samuel P. Huntington e JoJi Watanuki per conto della Commissione Trilateral (teoricamente un gruppo di studio non governativo e apartitico, ma solo teoricamente) e pubblicato in un libro che, quando fu tradotto in italiano nel 1977, aveva come titolo La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità della democrazia alla Commissione Trilaterale e la prefazione fu scritta niente meno che da Gianni Agnelli.
Lo studio osservava la condizione politica degli USA, dell’Europa e del Giappone affermando che i problemi nascevano da un “eccesso di democrazia” e sosteneva il ripristino del prestigio e dell’autorità delle istituzioni del governo centrale. Si comprese subito che, di fronte alla voglia di espansione della democrazia nel mondo, arrivava una risposta di quasi “condanna”, di maggior presenza democratica da parte delle oligarchie che vivevano nel mondo. È stata la grande svolta contro la democrazia intesa in senso corretto ed efficace che si era vissuta nell’immediato dopoguerra.
L’inizio degli anni Settanta era ancora contrassegnato dalla Guerra fredda, ma gli affari si facevano ugualmente anche se sia a ovest che a est si cominciava a vivere nel disagio di un nuovo cambiamento epocale.
Era in arrivo la terza rivoluzione tecnologica. In Occidente i grandi partiti di massa chiedevano maggiori garanzie per i lavoratori, una realtà come l’Unione Europea andava avanti e il welfare stava diventando l’elemento caratteristico dei Paesi che abbinavano democrazia e sicurezza.
Lo sviluppo delle democrazie era contrassegnato da un keynesismo moderato, cioè da un intervento dello Stato nell’economia, sulla base della scelta fatta dopo la crisi del 1929 che aveva letteralmente sconvolto il mondo, favorendo di fatto l’ascesa di Hitler al potere e poi lo scoppio della Seconda guerra mondiale.
Un simile sviluppo non soddisfaceva la nuova classe di tecnocrati e finanzieri che si stava affacciando sui due lati dell’Atlantico, dopo gli anni dell’espansione dell’ultimo dopoguerra.
Fu in quel periodo che – di fronte alla guerra del Vietnam, alla rivolta studentesca del 1968, ai primi scricchiolii che si avvertivano nel mondo comunista – gli uomini della Commissione Trilateral dimenticarono e condannarono gli insegnamenti di John Maynad Keynes, la centralità dell’impresa, il problema della piena occupazione e rilanciarono l’importanza su tutto del mercato e il ruolo insostituibile della finanza in tutti i suoi aspetti.
Quando crollò il Muro di Berlino nel 1989, il neoliberismo finanziario aveva già rivoltato il mondo creando disuguaglianze impensabili tra Paese e Paese, all’interno di uno Stato e, addirittura, in modo abnorme all’interno di una stessa fabbrica.
Mentre il miliardario americano Warren Buffet poteva affermare al New York Times: “Certo che c’è lotta di classe, ma è la mia classe, la classe ricca che la sta conducendo e noi stiamo vincendo”, dalle premesse e dalle proposte del 1975 della Trilateral arrivava la più grave crisi democratica che la storia abbia registrato.
La vittoria del mercato
Nel 2007, l’economista Joseph Stiglitz gridava, a ragione: “Non usciremo dalla crisi senza una vera politica redistributiva”. Ma questa redistribuzione restava un sogno mentre, accanto alla svolta neoliberista che continua ancora oggi ad andare avanti, si realizzano e si continuano a riproporre le riforme istituzionali che la Commissione Trilateral aveva avanzato nel 1975.
Questa volta la crisi è molto più profonda e pericolosa. Nella stessa Italia, accanto al mercato che ha vinto, a una sinistra che non ha capito nulla dopo il crollo del comunismo, davanti a un populismo demenziale, i nuovi vincitori parlano di premierato e di una inevitabile riduzione della funzione del Parlamento.
Si badi bene una cosa. Non ha vinto il comunismo contro il mercato, non ha vinto l’uguaglianza assurda predicata dai Soviet contro la modulazione di classi sociali che possono convivere con prudenza e realismo. Ha vinto il mercato contro ogni riformismo socialista e socialdemocratico, contro la liberaldemocrazia che prevede una coesione e una compattezza sociale che si deve modificare attentamente nel tempo.
Il rischio finale? Con tutta probabilità non è il ritorno al fascismo, ma il passaggio dalla democrazia alla tecnocrazia. Tanto per rispolverare la memoria. Dopo la presa di posizione della Trilateral, sono scomparsi dalla scena politica in Europa, per un motivo o per l’altro, uomini come Willy Brandt, Felipe Gonzalez, Bettino Craxi, Olof Palme, Harold Wilson, Mario Soares. Erano tutti i riformisti che hanno garantito ai Paesi europei uno sviluppo democratico fino agli anni Ottanta. E come classe dirigente hanno anche rappresentato una garanzia di capacità diplomatica nello scongiurare le guerre.