Nuova Atlantide N.12 - Giugno 2024
I dati più recenti sulla consistenza numerica della popolazione mondiale indicano una stima di 8,1 miliardi di abitanti a metà del 2024 (United Nations, 2022), di cui oltre 6,8 localizzati nei così detti “Paesi in via di sviluppo” (PVS) e, tra di essi, 1,2 miliardi nei “Paesi a basso sviluppo” (PBS). Ricordando che circa mezzo secolo fa i corrispondenti valori erano 4 miliardi per l’intero pianeta e 3 per la componente meno sviluppata – con poco più di 300 milioni di persone nei Paesi a sviluppo minimo – si ha subito il quadro di una crescita demografica intensa e profondamente differenziata nelle diverse aree.
Entrando nei dettagli della struttura per età si vede immediatamente come l’umanità che si è aggiunta durante lo scorso mezzo secolo sia prevalentemente formata da giovani o giovani adulti. Dei 4,1 miliardi in più, oggi presenti sulla Terra rispetto al 1974, i soggetti meno che ventenni sono quasi un quinto (769 milioni) e la crescita delle persone tra i 20 e i 50 anni sfiora i due miliardi.
Nel complesso, l’aumento degli anziani – convenzionalmente intesi come 65enni e oltre – è poco al di sopra dei 600 milioni e tra di essi coloro i quali hanno almeno 80 anni coprono più di un quinto della crescita totale (136 milioni).
Tuttavia, se è indubbio che il bilancio globale veda un mondo arricchito da una massiccia presenza giovanile, va anche sottolineato come ciò non abbia riguardato in modo omogeneo le diverse regioni del pianeta. La consistente aggiunta che si conteggia nelle classi d’età più giovani è stata una prerogativa delle realtà in via di sviluppo e più ancora dei Paesi a più basso sviluppo, mentre le popolazioni economicamente evolute, i così detti “Paesi a Sviluppo Avanzato” (PSA), hanno accumulato tutta la loro crescita demografica nel corso dell’ultimo mezzo secolo – per altro relativamente modesta (244 milioni di unità) – esclusivamente nelle fasce d’età adulte e, con particolare intensità, in quelle più anziane: i giovani fino a 20 anni hanno infatti perso 73 milioni di unità tra il 1974 e il 2024, laddove gli ultra 65enni si sono accresciuti del doppio. (Figura 1)
In linea con tale contesto anche il continente europeo, nel bilancio di un cinquantennio che segna una crescita complessiva di 69 milioni di abitanti, ha messo in luce un calo di 84 milioni di giovani meno che trentenni, ampiamente compensato da un incremento di 127 milioni di ultra 50enni.
Figura 1
Popolazione in più o in meno nel 2024 rispetto al 1974 per classe di età e macro regione (migliaia)
Ben diverse appaiono le prospettive per il prossimo mezzo secolo (Figura 2). In un panorama di rallentamento della velocità di crescita della popolazione mondiale – pur ipotizzando 2,2 miliardi di persone in più tra il 2024 e il 2074 (United Nations 2022) – si fa largo un progressivo e intenso “invecchiamento” degli abitanti della Terra. Oltre metà di coloro che si aggiungeranno nei prossimi cinquant’anni avrà almeno 65 anni d’età e oltre un miliardo tra di essi ne avrà 70 o più, a fronte di un calo di 117 milioni dei giovani con meno di vent’anni.
Anche secondo tale scenario le profonde differenze tra le grandi ripartizioni geo-politiche ed economiche sono destinate a persistere. L’insieme dei PVS accentrerà l’intera variazione della consistenza numerica mondiale – compensando altresì la perdita prevista nel complesso dei PSA (-72 milioni) – e risentirà del forte dinamismo di quelli che oggi formano la categoria dei Paesi a (più) basso sviluppo: l’Africa sub-sahariana, innanzitutto.
In particolare, proprio quest’ultima regione sembra destinata a passare dai poco più di 1,2 miliardi di abitanti del 2024 ai 2,9 miliardi fra cinquant’anni, segnando un’aggiunta di 352 milioni di giovani meno che ventenni, di 195 milioni di anziani ma soprattutto di più di 1,1 miliardi di adulti in età attiva; un collettivo, questo, entro cui circa la metà (533 milioni) si colloca nella fascia più giovane: tra i 20 e i 40 anni.
Cosa ciò possa significare in termini di potenziale emigratorio resta la grande incognita del futuro. Si è ben consapevoli che la capacità di fare sviluppo in quelli che oggi sono i Paesi economicamente più arretrati, trasformando la dinamica e la struttura della popolazione da “peso” in “stimolo” della crescita economica, sia un obiettivo irrinunciabile per garantire equità ed equilibrio al genere umano. Ma per riuscire in tal senso occorre, innanzitutto, poter offrire al complesso di quelli che oggi vengono indicati a basso sviluppo (PBS) – che dagli attuali 1,1 miliardi di abitanti sono destinati a più che raddoppiarsi (con l’aggiunta di 1,4 miliardi nel prossimo mezzo secolo) – l’opportunità di incassare il così detto “dividendo demografico” (Bloom, Canning and Sevilla, 2003). Ossia il vantaggio che deriva loro dalla prospettiva di una popolazione che, ancora per qualche decennio, avrà un minor carico di giovani senza che si sia già accresciuto quello degli anziani. È evidente che riuscire a valorizzare questo enorme potenziale produttivo nei Paesi in cui si forma rappresenterebbe la migliore strategia per evitare che sia la valvola di sfogo dell’emigrazione a dover attenuare, talvolta in modo scomposto e non senza controindicazioni, le disparità tra nord e sud del mondo.
Figura 2
Popolazione in più o in meno nel 2074 rispetto al 2024 per classe di età e regione (migliaia)
Viaggio entro i confini dell’Unione Europea: un crollo intenso e generalizzato
Se è vero che, come spesso si avverte richiamando l’efficace immagine dell’“inverno demografico”, la natalità nel nostro Paese si muove inseguendo, anno dopo anno, i record al ribasso (Blangiardo, 2023), non è che altrove nell’Unione Europea il panorama demografico sia, di questi tempi, particolarmente più brillante.
Sul fronte della natalità, mentre nei primi anni Settanta il complesso dei ventisette Paesi dell’Unione (EU 27) si attestava attorno a 6 milioni di nascite annue, al giorno d’oggi, con una popolazione ben più numerosa, si fatica a mantenerne il numero sopra i 4 milioni. Affiora così il primo e più evidente sintomo di quella “demografia senza futuro” che è andata via via radicandosi entro i confini di una comunità territorialmente sempre più estesa, ma sempre meno prolifica e vitale.
Nel panorama europeo si va irrimediabilmente accreditando l’immagine di una realtà demografica che segna il passaggio dai tassi di natalità (nati per 1000 abitanti) ovunque a due cifre – talvolta prossimi al 20 per mille (Figura 3) – negli anni Settanta, a quelli spesso sotto il 10 per mille che, con l’avvento del nuovo millennio, sono andati via via affermandosi. Di fatto, oggi le nazioni più virtuose – Irlanda, Francia, Cipro e Svezia – sono a malapena capaci di raggiungere quella stessa intensità che solo pochi decenni fa segnava il confine più basso nel contesto europeo della natalità.
Figura 3
Tassi di natalità (nati per 1000 abitanti) in EU 27 (selezione). Anni 1971-2022
Non c’è dunque da stupirsi che il saldo naturale (differenza tra nati e morti), largamente positivo in ogni Paese di EU-27 sino all’inizio degli anni Settanta, sia diventato negativo a partire dal nuovo secolo in oltre la metà dei membri dell’Unione. Nell’insieme di EU 27 la frequenza dei morti ha superato nel 2022 quella dei nati per oltre 1,2 milioni di unità, accelerando un deficit che era ancora attorno a mezzo milione nel 2019. Entrando nel dettaglio, si rileva come il sorpasso della mortalità sulla natalità sia presente nel 2022 in ben ventun membri dell’Unione. Si salvano in tal senso unicamente Irlanda, Francia, Cipro, Lussemburgo, Malta e Svezia.
La stessa crescita demografica, che per decenni ha contraddistinto la popolazione di EU 27, si è ormai sostanzialmente interrotta, fermando la consistenza numerica dei residenti a poco meno di 450 milioni di unità. Va però osservato che la relativa stabilità evidenziata per il complesso dei ventisette Paesi nel quadriennio 2019-2022 è anche frutto della contrapposizione tra la crescita alimentata dai flussi migratori in alcuni grandi, Germania e Spagna in primo luogo, e il forte regresso registrato in altri, come l’Italia, nei quali il pesante deficit naturale non ha (più) trovato compensazione attraverso un adeguato apporto migratorio.
Ma basteranno le immigrazioni ad arrestare il declino?
Secondo le statistiche più aggiornate (Eurostat, 2024), nel corso del 2022 l’insieme di EU 27 ha contato (mediamente) 447 milioni e 33 mila residenti, che hanno dato vita a 3 milioni e 886 mila nascite, come espressione di un livello di fecondità ovunque inferiore alla soglia del così detto “ricambio generazionale”. Di fatto, mentre in nove Paesi dell’Unione il numero medio di figli per donna (noto come TFT o Tasso di Fecondità Totale) non è arrivato nel 2022 a 1,4 e in altri quattordici Paesi è risultato compreso tra 1,4 e 1,6, solo in quattro casi (Francia, Romania, Bulgaria e Repubblica Ceca) si è almeno superato il valore di 1,6, senza però mai raggiungere il livello simbolico dei due figli per donna.
Guardando al futuro, le valutazioni di Eurostat propongono – forse con un eccesso di ottimismo – una previsione demografica, indicata come “variante di base”, nella quale si ipotizza pressoché ovunque un recupero in termini di fecondità – pur senza arrivare ai livelli di ricambio generazionale – e analogamente si recepisce un ulteriore generale allungamento dell’aspettativa di vita. Ma a ben vedere ogni futuro scenario sarà comunque fortemente condizionato dall’intensità con cui potranno manifestarsi i flussi migratori extra UE.
In tal senso, la “variante di base”, con un saldo migratorio positivo medio annuo di circa 1,2 milioni di unità, mostra come l’insieme di EU 27 avrebbe modo di mantenere nel prossimo ventennio una certa stazionarietà, attorno a 450 milioni di abitanti, ma sarebbe poi destinato a perderne progressivamente circa 20 milioni, scendendo sotto quota 430 milioni nel 2075 (Eurostat, 2024).
Se però il contributo migratorio dovesse risultare più contenuto, o persino nullo, la perdita di abitanti sarebbe ben diversa, sia come tempistica che come intensità. Senza migrazioni si avrebbe infatti, da subito, una costante riduzione dei residenti, con la discesa sotto il 350 milioni nel 2075. Ma anche supponendo semplicemente un ridimensionamento dei flussi netti – che Eurostat ipotizza in una media di circa 650 mila unità annue – il regresso inizierebbe subito e segnerebbe la perdita di circa 50 milioni di residenti entro il 2075.
Solo immaginando che le migrazioni nette si accrescano in modo consistente – e Eurostat ipotizza una media annua di 1,7 milioni – si avrebbe, almeno nel breve periodo, una modesta crescita dei residenti in EU 27. Essi arriverebbero attorno ai 470 milioni (circa 20 milioni in più degli attuali) nell’arco di un ventennio, per poi stabilizzarsi negli anni successivi su un livello leggermente inferiore (466 milioni nel 2075).
Figura 4
Popolazione residente in EU 27 al 1° gennaio degli anni 2025-2075 secondo diverse ipotesi sui flussi migratori (valori in milioni)
In conclusione, sembra legittimo affermare che la funzionalità dei flussi migratori, al fine di mantenere in ambito EU 27 gli attuali livelli di popolazione (o contenerne il calo) sia innegabile alla luce degli scenari previsivi, quanto meno sul piano strettamente quantitativo. Ciò che andrebbe tuttavia aggiunto è che tale contributo andrebbe anche collocato entro le prospettive di cambiamento strutturale del mercato del lavoro nei prossimi decenni, con le verosimili trasformazioni qualitative della domanda e in un contesto di progresso tecnologico che potrebbe sempre più risultare orientato a garantire un risparmio di mano d’opera.
Riferimenti bibliografici
G.C. Blangiardo (2023), Contro il declino, in Civiltà del Lavoro, n. 4/5 2023, pp. 49-51.
D. Blood, D. Canning, J. Sevilla (2003), The Demographic Dividend, Population Matter, United Nations Population Fund, RAND, Santa Monica.
Eurostat (2024), Database, http://ec.europa.eu/eurostat/data/database
United Nations (2022), World Population prospects. The 2022 Revision, https://esa.un.org/unpd/wpp/www