Nuova Atlantide N.12 - Giugno 2024
Il termine “policrisi”, coniato per la prima volta negli anni Novanta da Edgar Morin e ripreso nel 2016 dal presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, descrive la complessità del momento storico che stiamo attraversando. È stato lo storico dell’economia Adam Tooze a rendere celebre questa espressione: il contesto attuale – nella prospettiva di Tooze – è caratterizzato da una serie di crisi che si intersecano tra loro, producendo effetti complessivi maggiori rispetto a quelli che si determinerebbero dalla loro semplice somma. Non solo: ciascuna crisi può innescarne un’altra. Dato questo scenario, la prima evidenza è che per comprendere un tale intreccio di piani è necessario avvalersi di una notevole molteplicità di competenze. La necessità di interpretare fenomeni così complessi deve rendere sempre più abituale l’integrazione di approcci disciplinari diversi ma complementari: dalle competenze finanziarie, a quelle strategiche e militari, fino anche alla medicina.
L’altro dato che si può ricavare da uno scenario di questo tipo è l’evidenza del fatto che nessuno si salva da solo: né gli Stati, per quanto grandi siano, né tantomeno i soggetti privati, hanno le risorse per poter gestire una tale complessità in solitaria. In questo senso la pandemia ha offerto un chiaro esempio. La crisi sanitaria, infatti, ha paralizzato il commercio mondiale provocando a sua volta una crisi economica tale da rendere necessario l’intervento degli Stati, i quali hanno tentato di evitare effetti sociali devastanti tramite un’espansione imponente della spesa pubblica. Le conseguenze non si sono fatte attendere e diversi Stati hanno dichiarato default.
Sebbene in Occidente questo fenomeno sia stato avvertito in modo meno dirompente, tra il 2020 e il 2022 il Fondo Monetario Internazionale ha attivato interventi di aiuto per novanta Paesi, ovvero quasi la metà dei centonovanta Stati soci. Anche l’inflazione è cominciata a crescere in maniera preoccupante, infiammata poi dall’invasione dell’Ucraina, la quale a sua volta ha innescato una crisi alimentare abbattutasi sui Paesi dipendenti dall’Ucraina per l’approvvigionamento di grano (l’Egitto, per esempio, importava circa l’80% del fabbisogno nazionale da Russia e Ucraina).
Questi sono i tratti del mondo in cui viviamo, un mondo che il noto economista e già segretario del tesoro americano Larry Summers descriveva così: “this is the most complex, disparate and cross-cutting set of challenges that I can remember in the 40 years that I have been paying attention to such things”. All’interno di questo scenario complesso, voglio sottolineare tre dimensioni che caratterizzano in modo particolarmente significativo la congiuntura che stiamo attraversando. Cercherò, infine, di considerare le opportunità che questa situazione apparentemente ostile può offrire al nostro sistema Paese.
Come cambia il commercio internazionale
La prima dimensione che voglio affrontare è quella del commercio internazionale. Cosa sta accadendo alle relazioni commerciali tra gli Stati? Per rispondere a questa domanda è importante situare il momento attuale in una più ampia parabola storica. Successivamente alla caduta del muro di Berlino nel 1989, e ancor più dopo l’ingresso della Cina nel WTO nel 2001, la concezione per cui il globo fosse come una sorta di grande supermercato è stata dominante, un contesto in cui i vari attori potevano acquistare quanto ricercato applicando unicamente il criterio della convenienza economica. Le relazioni di molti Paesi europei con la Russia sul fronte energetico ne sono un esempio: la ragione per cui essi dipendevano principalmente da Mosca per il proprio approvvigionamento non era dato dalla distanza geografica, quanto piuttosto dalla possibilità di acquistare il gas a un prezzo più competitivo in rapporto, ad esempio, alla vicina Africa settentrionale. Tuttavia, l’emergere di diverse minacce geopolitiche, non ultima quella cinese, ha reso necessario rivedere questo approccio: dopo vent’anni di grande sviluppo della globalizzazione, negli ultimi anni il trend si è interrotto e gli scambi hanno conosciuto una riorganizzazione. Il criterio della convenienza economica ha cominciato a essere bilanciato da quello della prossimità geografica e strategica: si tende a promuovere le relazioni con i partner più geograficamente vicini e più strategicamente amici, tornando a mettere in campo politiche protezionistiche nei confronti dei Paesi ritenuti ostili.
In questo quadro, un’attenzione particolare deve essere rivolta al commercio marittimo, che da solo rappresenta il 90% degli scambi globali. Anche in questo campo la crisi è profonda: il passaggio dal canale di Suez è sempre meno sicuro per ragioni militari, il canale di Panama sempre meno agibile per ragioni climatiche legate alla siccità, e la necessità di evitare questi stretti, passando rispettivamente dal Capo di Buona Speranza e dallo Stretto di Magellano, si ripercuote in modo sensibile sui costi e sui tempi della navigazione, offrendo un ulteriore incentivo al ripensamento degli scambi. In ultima analisi, com’è ovvio, si ripercuote anche sui prezzi dei prodotti.
Diverse sono le espressioni che sono state impiegate per descrivere questa nuova fase storica: qualcuno ha parlato di “fine del commercio”, altri di “fine della globalizzazione”. Ritengo, invece, che sia più opportuna l’espressione “globalizzazione 2.0”, una formulazione che meglio esprime un contesto in rapida evoluzione e l’aprirsi di nuovi scenari. Il 2024, infatti, sarà un anno fondamentale per capire che direzione verrà impressa a questa nuova configurazione degli assetti internazionali: le settantaquattro elezioni politiche che si tengono quest’anno nel mondo decidono se ci aspetta un’evoluzione verso un contesto ancor più frammentato, o se invece ricomincerà a prevalere una logica di apertura e collaborazione in cui capitali e merci potranno tornare a circolare più agevolmente.
L’Europa delle due transizioni epocali
La seconda dimensione che voglio affrontare riguarda l’Europa, e in particolare la capacità del vecchio continente di realizzare i due grandi obiettivi che si è prefissato: la transizione digitale e quella energetica. L’Unione Europea sarà in grado di finanziare e implementare queste due transizioni epocali?
Ci sono soprattutto due elementi problematici che gettano un’ombra di scetticismo sulla possibilità di portare a termine queste trasformazioni. Il primo ha a che fare con alcune tecnologie strategiche necessarie al perseguimento di questi obiettivi. Possiamo citare a titolo di esempio il caso delle batterie agli ioni di litio o il solare fotovoltaico: tutta la filiera legata a queste tecnologie è dominata dalla Cina. Dalle materie prime fino all’assemblaggio, l’Europa è pressoché assente. La situazione che si verrebbe a configurare, a meno di un intervento profondo e repentino, è quella di una dipendenza da quei Paesi che controllano la maggior parte delle quote di mercato legate a questo tipo di tecnologie. Se un investimento importante nel campo dell’auto elettrica ci dovesse portare a replicare uno stato di dipendenza dalla Cina come quello che negli anni Settanta abbiamo sperimentato nei confronti dei petrolieri, le conseguenze potrebbero essere gravissime. La stessa logica vale per molte delle materie prime di cui necessitiamo per realizzare le due transizioni. Un altro caso, a titolo di esempio, è quello del cobalto, che i Paesi dell’UE importano per il 60% dalla Repubblica Democratica del Congo, uno Stato che certo non primeggia per stabilità e trasparenza.
In sintesi, l’Europa ha una grande fragilità nella dipendenza da pochi Paesi, tra cui spicca in modo preoccupante la Cina. Questa constatazione, oltre ad aprire all’ipotesi di ricominciare a scavare nel continente europeo per reperire le materie prime, deve far riflettere sull’importanza delle operazioni di riciclo: queste materie prime sono presenti in oggetti di uso comune che non vengono adeguatamente riutilizzati e che chiedono di strutturare un piano europeo per un’industria del riciclo. Il secondo elemento di forte criticità è legato ai capitali. Per quanto riguarda la transizione green, le stime per realizzare gli obiettivi che l’Europa si è data al 2030 con il “Fit for 55” ammontano a circa 480 miliardi di euro all’anno. A questi si aggiungono gli sforzi che dovrebbero essere messi in campo a livello globale per realizzare gli obiettivi fissati dai vari SDGs: si parla di 3.800 miliardi di dollari all’anno per il prossimo decennio circa. L’Italia – per dare un ordine di grandezza – ha lanciato un’iniziativa, il Fondo per il clima, per aiutare i Paesi in via di sviluppo a realizzare la transizione. Questo fondo ammonta a 4 miliardi di euro. È chiaro, dunque, che il problema cruciale è quello di trovare le modalità per attrarre capitali privati da orientare su queste transizioni. In questo ambito, infatti, diventa ancora più evidente il principio per cui nessuno si salva da solo: le risorse finanziarie degli Stati da sole non sono sufficienti a fronteggiare queste sfide. Per promuovere un’alleanza tra il pubblico e il privato, le azioni necessarie sono principalmente due: ridurre i rischi degli investimenti e assicurare dei ritorni che li giustifichino.
Demografia e flussi migratori
Il terzo grande fenomeno che voglio mettere a fuoco è quello demografico. La demografia rappresenta una dimensione fondamentale in quanto da essa dipende l’altro grande pilastro della produzione, oltre alla disponibilità di capitale, ovvero la forza lavoro. Nella situazione attuale si stanno verificando alcuni grandi cambiamenti: il più significativo riguarda il fatto che tra i sei continenti del pianeta, l’unico in cui la popolazione non crescerà è quello europeo. Tra questi, la crescita più significativa si registra nel continente africano. Questa massa imponente di persone si sposterà? I flussi migratori incontreranno le esigenze di lavoro che, in particolare in Europa, cominciano ad essere sempre più impellenti? Occorre prepararsi ad affrontare queste sfide, e connesse a queste le conseguenze dovute ai cambiamenti climatici. Si stima, infatti, che se la temperatura globale dovesse variare di un delta pari a circa 3 o 4 gradi, si sposteranno fino a un miliardo e mezzo di persone. Se, da un lato, questo dato rende ancor più evidente l’importanza di procedere negli sforzi per realizzare una transizione energetica, è chiaro che anche in questo settore sarà urgente unire gli sforzi del pubblico e del privato per finanziare adeguati strumenti di gestione dei flussi migratori e di promozione dell’integrazione. Questi tre affondi permettono di offrire una prospettiva sulle sfide e le opportunità che si presentano per l’Italia in questo scenario di grandi cambiamenti. In particolare, sintetizzo queste prospettive in quattro diverse suggestioni.
Reshoring e nearshoring
Il primo punto riguarda le capacità produttiva e le competenze in campo manifatturiero e industriale. La frammentazione delle catene del valore dovuta all’instabilità geopolitica globale sta favorendo processi di reshoring o nearshoring, ovvero interventi volti a riportare la produzione all’interno del proprio Paese o in Paesi prossimi, sia dal punto di vista geografico che politico, soprattutto per tecnologie strategiche per la twin transition o rilevanti per la sicurezza nazionale. In questo contesto, il fatto che l’Italia abbia saputo mantenere una notevole capacità produttiva è un elemento di grande forza. Se consideriamo il commercio internazionale, le merci in circolazione si dividono in 5.000 tipologie differenti di beni. L’Italia è il secondo Paese dopo la Cina per quantità di tipologie di beni esportate: ciò denota una diversificazione ampia e una estensione notevole della capacità manifatturiera italiana.
L’Italia e il Mediterraneo: per una nuova centralità
Il secondo elemento riguarda la capacità di sfruttare in modo strategico la collocazione geografica dell’Italia. Il riassetto dei commerci internazionali e la conseguente necessità di creare filiere produttive più concentrate renderà il Mediterraneo sempre più un mare di scambio, non solo un mare di transito. Questo fenomeno può offrire all’Italia una nuova centralità. Possiamo immaginare un’Europa che appronterà al suo interno delle filiere produttive per sviluppare le tecnologie strategiche per le transizioni, sfruttando i grandi assemblatori del nord Europa, la manodopera a basso costo nel sud del Mediterraneo e nei Balcani, e l’Italia che, collocandosi nel mezzo, sfrutta le proprie medie aziende per re-ingegnerizzare il semilavorato e consegnarlo all’assemblatore finale.
Turismo e transizione ecologica: i vantaggi del Belpaese
In terzo luogo, l’aumento delle situazioni di crisi a livello globale rende sempre più scarse le mete adatte al turismo. Anche in questo campo il nostro Paese può giocare un ruolo importate. Occorre, tuttavia, pianificare molti investimenti, sia sulle strutture, tra cui quelle high-end di altissimo livello, sia sulle infrastrutture come porti e aeroporti per accogliere i flussi turistici che potrebbero rivolgersi verso l’Italia. È evidente, dunque, che l’alleanza tra pubblico e privato e una oculata selezione degli investimenti strategici si ripropone come un tema dirimente. Da ultimo, uno scenario favorevole si delinea sul fronte della transizione ecologica. Le aziende italiane sono le più green d’Europa, quelle più in grado di riutilizzare le materie prime, di riciclarle in maniera efficiente. In Italia si ricicla circa il 63% del legno che viene utilizzato, mentre la media europea si attesta appena al 32%. Rispetto alla plastica, viene riciclato circa il 50% dei materiali, a fronte di una media del 40%. Lo sviluppo in questo settore è stato necessario a causa della carenza di risorse naturali: la necessità ha fatto sì che le imprese italiane sviluppassero competenze legate al settore del riciclo e del riuso.
Il gap italiano delle nascite
In questo scenario globale caratterizzato da una situazione di policrisi, dunque, si aprono diversi spazi che l’Italia può sfruttare a proprio vantaggio. Il grande problema, tuttavia, resta quello della demografia. Dal 2013 il Paese sta perdendo popolazione. Nel 1964 sono nati un milione di bambini, mentre l’anno scorso ne sono nati meno di 400.000; ormai da circa dieci anni nemmeno il saldo positivo dei flussi migratori è sufficiente a compensare l’ammanco di nuovi nati. Uno degli impatti più diretti di questo fenomeno ha a che fare con uno dei due già citati pilastri della produttività. Considerando la forza-lavoro italiana nel 2030, infatti, in particolare per le posizioni a bassa qualifica il sistema italiano è in perdita rispetto a tutte le fasce d’età, registrando un deficit di quasi 2,5 mln di lavoratori rispetto allo status quo.
Necessità di forza lavoro e necessità di capitale: queste – per concludere – le due grandi sfide da affrontare. Per questo, tutte le politiche che verranno sviluppate dovranno saper coniugare un’apertura di visione, sia nel tempo che nello spazio. Le dinamiche che impattano maggiormente il nostro mondo, infatti, si snodano su dimensioni temporali di ampio respiro, e risentono continuamente dell’intreccio profondo e complesso dei rapporti internazionali. Una veduta lunga – richiamando Padoa-Schioppa – è ciò di cui abbiamo bisogno.