Trimestrale di cultura civile

Europa e Alleanza atlantica: il ruolo dell’America

  • GIU 2024
  • Marta Dassù

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La fotografia americana è quella di una realtà abbastanza forte dal punto di vista economico e assai debole per quanto riguarda la politica. Questo stato delle cose è destinato a caratterizzare in modo diverso lo storico rapporto fra USA e Vecchio continente maturato alla fine della Seconda guerra mondiale. Già, ma in quale direzione? E quali gli interessi prevalenti nel contesto di un quadro internazionale denso di nubi? Le elezioni presidenziali di fine anno diranno molto. Con un’opinione pubblica statunitense per nulla soddisfatta dei due candidati.

Dopo una storia di relazioni transatlantiche che non ha avuto scossoni particolari, anche se crisi ci sono sempre state, dalla Seconda guerra mondiale in poi, oggi la relazione tra Stati Uniti ed Europa è aperta a vari interrogativi, soprattutto per le direzioni non chiare che potrebbe prendere l’America.

Gli Stati Uniti sono alle prese con una sorta di “rematch”, si rigioca la partita fra Donald Trump e Joe Biden. È una situazione che non piace agli americani stessi, tutti i sondaggi indicano che la scelta tra questi due candidati – in modo diverso problematici, sicuramente vecchi, senza un ricambio generazionale né nel partito repubblicano né in quello democratico – non ha l’appoggio della maggioranza dell’opinione pubblica, che avrebbe voluto vedere un gioco diverso. I precedenti storici di un rematch, del resto, sono molto pochi.

Questo problema di un’America ripiegata su se stessa, l’“America first” di Donald Trump, si ripresenta e pone all’Europa la questione di dover pensare in modo più evidente di quanto non fosse prima la sua stessa sicurezza e difesa in una fase peraltro resa molto critica dalla guerra in Ucraina e dalla contemporanea guerra in Medio Oriente, quindi due fronti per l’Europa. Trump controlla la base del partito repubblicano, è riuscito a mobilitarla, non controlla tutto il partito.

Trump è da sempre contro quella che sarebbe una linea molto ovvia per il partito repubblicano, che ha sempre visto nell’Unione Sovietica prima e poi nella Russia un nemico storico degli Stati Uniti.

Trump è convinto che con la Russia di Putin si possa raggiungere un accordo sulla divisione in sfere di influenza dello spazio ex sovietico, in pochissimo tempo: una specie di slogan ed è in generale uno slogan quello di Trump di sostenere che con lui al potere negli Stati Uniti, l’America non avrebbe più problemi di guerre. In effetti, da parte sua, ha il fatto che durante la sua presidenza dal 2016 al 2020 non ci sono state nuove guerre in cui gli americani siano stati coinvolti, mentre con Biden gli eventi esterni hanno riportato l’America in gioco, l’Ucraina prima e poi il Medio Oriente, Israele e Gaza dopo il 7 ottobre.

Biden come candidato non va bene secondo una parte dei democratici stessi, per ragioni fondamentalmente di età. Dalla parte di Biden c’è il fatto che, come presidente, è riuscito a tenere abbastanza bene insieme le varie fazioni dei democratici che, da un certo punto di vista, costituiscono un partito più simile alle formazioni politiche europee, un partito più strutturato anche se in America i partiti sono fondamentalmente dei cartelli elettorali, ma questa sua capacità di tenere insieme i dem si sta erodendo proprio nell’anno delle elezioni. E uno dei fattori per cui questo accade è proprio il teatro mediorientale, perché una parte della nuova generazione dei democratici contesta fortemente l’appoggio del governo Biden al dramma dell’aggressione di Hamas, l’appoggio cioè al governo di Netanyahu che, all’inizio, l’America ha dato in modo abbastanza deciso. È un fatto importante per la politica interna perché il voto della comunità araba-americana è decisivo in una parte degli Stati in bilico. In particolare, è importante nel Michigan dove Biden rischia di perdere e perdere le elezioni in Michigan non è uno scherzo perché il sistema elettorale americano si basa sul meccanismo del collegio elettorale. Biden è un presidente che ha un indice di gradimento bassissimo, uno dei più bassi della storia americana, una specie di Jimmy Carter dell’epoca e rischia – come Jimmy Carter – di fare un solo mandato. Trump ha una situazione che a noi europei pare abbastanza incredibile, cioè ha quattro grandi processi, uno dei quali riguarda il gennaio del 2020, l’assalto a Capitol Hill, e gioca tutta la sua campagna elettorale su una strategia di tensione fra la battaglia legale e la battaglia elettorale.

Una spartizione del Paese

Quanto è in crisi la democrazia americana e quanto lo sarebbe con un Trump di nuovo presidente degli Stati Uniti? È una domanda importante. I costituzionalisti rispondono in modo variegato ma sempre tenendo conto di una cosa che è importante per capire l’America. A differenza dell’Europa, la visione dei padri fondatori degli Stati Uniti è che la funzione del governo è ridotta. Il governo deve essere quel tanto di necessario che serve per fare andare bene la cosa pubblica, ma non deve avere un ruolo preponderante. Certamente non per i repubblicani, storicamente, ma in fondo neanche tanto per i democratici. Un’altra cosa importante per capire l’America di oggi è che le tradizionali “constituents”, le classi sociali che hanno appoggiato i due partiti, i repubblicani e i democratici, non sono più quelle di una volta. Il fenomeno più rilevante è il passaggio ai repubblicani della classe operaia bianca e della classe rurale bianca come effetto dello schiacciamento della classe media che ha sempre costituito l’ossatura portante della democrazia americana a seguito della globalizzazione. Quindi si sono invertite le parti, i repubblicani rappresentano la working class bianca, i democratici rappresentano l’élite istruita.

I democratici sono in larga parte liberal, nell’accezione anglosassone: difendono i diritti delle minoranze, difendono i diritti LGBT, difendono il diritto all’aborto – che è stato un tema importante dell’elezione di midterm nel 2020 –, quindi è una battaglia che si gioca su dei valori fondamentali al punto che la sensazione generale è che non esista più l’America. Esistono due Americhe che non si riconoscono a vicenda, in cui l’avversario politico è in realtà un nemico a cui non si attribuisce nessuna legittimità e sono due Americhe l’una contro l’altra armate, al punto che una parte degli osservatori teme una sorta di nuova guerra civile.

Personalmente la ritengo una forzatura di tipo intellettuale e giornalistico, ma sicuramente c’è una spartizione del Paese che è diviso anche geograficamente, in cui una parte delle persone per perseguire i propri diritti decide semplicemente di cambiare Stato. Dal punto di vista politico questa mancanza di un terreno di consenso bipartisan, che aveva sempre reso grande l’America politicamente, è un vero problema per due ragioni. Da un lato rende davvero difficile il funzionamento del ramo legislativo: oggi far passare a Washington dei provvedimenti è diventato molto difficile. Il secondo punto da tenere presente è che il consenso bipartisan era sempre stato chiaro sul ruolo dell’America nel mondo.

Ora questa mancanza di un consenso bipartisan interno rende debole l’America nel mondo, in una fase in cui difendere il ruolo dell’America nel mondo è già difficile di per sé per il tipo di scosse che sta vivendo il sistema internazionale. I politologi la definiscono l’“età della policrisi”, delle crisi continue: il Covid, la crisi finanziaria, le guerre o l’età della grande incertezza ma in cui tutto sommato la supremazia degli Stati Uniti è messa in discussione dagli sfidanti autoritari rivali.

La forza economica a stelle e strisce

La Cina ha una sua agenda, la Russia ha una sua agenda, ed esistono una serie di potenze che chiamiamo potenze di mezzo, potenze regionali, che giocano le loro carte su tutti i tavoli possibili. Esempio: la Turchia è un Paese che, pur essendo membro dell’alleanza atlantica, decide di avere dei rapporti molto stretti con la Russia. L’Arabia Saudita, che è in teoria un alleato degli Stati Uniti e a cui gli Stati Uniti hanno promesso di fornire tecnologia di difesa e tecnologia nucleare, non applica le sanzioni alla Russia e, anzi, dà una mano nell’illusione delle sanzioni e nell’OPEC, così importante per il petrolio, gioca di sponda con Mosca. Quindi è un mondo molto, complicato. Il Financial Times l’ha definito il mondo à la carte in cui si ha l’impressione che gli Stati Uniti – che pure restano in termini relativi il numero uno – non riescano più a controllare il sistema e questo si vede molto bene, ad esempio, in Medio Oriente. La crisi politica dell’America è abbastanza evidente ma non è un’America in crisi economica e questo è un altro punto importante da considerare: la forza economica dell’America dipende fondamentalmente dalla vitalità della sua società, che resta effettivamente vitale con un tasso di innovazione tecnologica molto forte.

Le prime dieci imprese americane, che poi sono le prime dieci imprese del mondo, non esistevano 15 anni fa e l’America è uscita molto bene dalla successione di crisi – da quella finanziaria del 2008 al Covid, dalla guerra in Ucraina alla guerra in Medio Oriente –, meglio di quanto ci si attendeva. La cosa interessante a cavallo fra economia e politica è che questa solidità dell’economia americana non si traduce in un appoggio a Biden; solitamente, quando l’economia va bene, l’amministrazione in carica dovrebbe essere apprezzata. Questo non avviene perché, tutto sommato, la gente non pensa di stare meglio di cinque anni fa, pensa di stare peggio sia perché l’inflazione ha comunque un effetto a lungo termine e riduce il potere d’acquisto, sia perché i tassi di interesse per ora sono rimasti più alti e quindi ottenere il mutuo per la casa – che per gli americani è parte integrante dell’american dream – è diventato più difficile. Biden ha poi un altro problema. Essendo palesemente malmesso dal punto di vista fisico, è evidente che si tema che a un certo punto della prossima amministrazione, il vicepresidente possa prendere il suo posto.

Kamala Harris, la vicepresidente di Biden, è una vera liability, direbbero gli americani, un vero punto debole, ma è molto difficile da sostituire perché è una donna e quindi il problema di Biden è di non perdere il voto delle donne, che può facilmente andare invece a Trump; e non può perdere una donna di colore, perché il voto delle minoranze sia ispaniche che afro-americans resta molto importante. Quindi questa è l’America di oggi, molto debole politicamente e abbastanza forte economicamente; in un mondo che sta cambiando moltissimo nel senso che la vecchia pax americana è chiaramente finita. Questo significa che l’Europa è in grosse difficoltà.

L’indipendenza energetica

C’è un’evidenza molto importante di cui parla spesso Mario Draghi. Negli ultimi vent’anni circa, l’Europa ha perso moltissimo in competitività rispetto agli Stati Uniti perché vent’anni fa il “size”, l’entità delle due economie, era più o meno simile. Oggi l’Europa ha un’economia che è più o meno il 65% di quella americana, quindi c’è stato un arretramento di quello che l’Europa vede come il terzo polo del sistema internazionale (Stati Uniti, Cina, Europa).

Se cerchiamo di capire le ragioni di questo arretramento credo che siano sostanzialmente tre. La prima è che siamo entrati in un’epoca di ritorno della politica industriale. Il paradigma dell’economia è cambiato e questo è un punto molto importante. È cambiato perché il problema della sicurezza e della geopolitica ha contagiato in modo molto pesante l’economia. Nessuno crede più che l’aumento di integrazione economica generi anche degli effetti pacifici. Questa era l’illusione degli anni Novanta, quando la Cina fu ammessa nel WTO. Oggi si ritiene che, nel concepire le proprie catene del valore, sia importante tenere conto di un elemento fondamentale: la sicurezza. Quindi c’è una gestione politica di una parte dell’attività economica, si cerca di rafforzare le basi della propria autonomia economica, cosa che l’America può fare molto meglio di quanto non possa fare l’Europa perché l’America, prima di tutto, è diventata un produttore indipendente di energia. L’America vende l’energia, a noi vende del gas liquefatto naturale ma, in generale, l’America è diventata uno dei grandi swing producer, è un grande produttore di energia.

Secondariamente, l’Europa è un continente trasformatore, ma deve importare energie, deve vendere sui mercati esteri e uno degli effetti più importanti della crisi ucraina è stato che l’Europa e il cuore dell’Europa, cioè il modello industriale tedesco, ha dovuto interrompere i rapporti energetici favorevoli con la Russia che aveva, ma che prescindevano dalla sicurezza, quindi non può più importare facilmente energia dalla Russia. L’importazione si è ridotta all’8 per cento, rispetto al circa 50 per cento iniziale. L’Italia su questo è stata molto abile e rapida, grazie all’ENI più che al governo, nel riconvertire le proprie fonti energetiche da est verso sud. In realtà non è che il sud sia così meno problematico, se pensiamo a Paesi come l’Algeria. L’energia da noi costa un terzo in più di quello che costa in America ed è difficile essere competitivi pagando l’energia tre volte di più.

Secondo fattore, la scarsa propensione dell’Europa all’innovazione tecnologica per mancanza di soldi. Il tasso di investimento di risorse comuni europee in tecnologia è molto basso. In chiave comparativa, molto basso rispetto all’America e molto basso rispetto alla Cina e, se guardiamo per esempio all’Intelligenza Artificiale – che è la frontiera della competizione futura –, questo rimane un dato di cui preoccuparsi.

Terzo, la crisi del vecchio modello di sviluppo di cui ho già detto più sopra, in particolare del modello tedesco, perché i motori lì erano tre: energia a basso costo dalla Russia, difesa garantita degli Stati Uniti ed esportazione in Cina. Per ragioni diverse questi motori sono tutti entrati in crisi. E, quarto, c’è la grande questione geopolitica e della difesa.

L’ormai incerta protezione americana

Noi siamo abituati dal 1949, dalla fondazione della Nato, a dare per scontata la protezione americana. Ora, questa protezione americana non è che sia finita, ma è diventata molto più incerta. Qualunque presidente americano da Clinton in poi chiede di aumentare le spese per la difesa e gli americani continueranno a pensare che la divisione vera del lavoro debba essere quella che gli europei si occupino dell’Europa con un ruolo degli Stati Uniti che si può definire di offshore balancing, cioè una garanzia nucleare ultima che rimarrà ma senza un impegno diretto così sostanziale come quello di oggi. Loro invece si occuperanno fondamentalmente dell’Indo-Pacifico dove stanno costruendo una serie di alleanze per contenere la Cina. Il tema difesa non è più un gioco intellettuale o una mania degli europeisti che ritengono che senza la difesa l’Europa resti incompleta. È, obiettivamente, una vera necessità, specie nella misura in cui la Russia di Putin è tornata a essere una minaccia convenzionale e classica.

Si entra in un altro tipo di ragionamento, un ragionamento di politica industriale per l’Europa. Dobbiamo riuscire non solo a spendere abbastanza – e questo, in fondo, paradossalmente, lo facciamo già. Se consideriamo la spesa militare aggregata europea siamo già a una spesa che è di 350 miliardi di euro, che significa una spesa superiore a quella della Russia o che ci si avvicina molto, nel senso che la Russia è diventata un’economia di guerra, ha aumentato le spese militari e, quindi, andrebbero rifatti i calcoli. È comunque una spesa ragguardevole, ma inefficiente, perché è frantumata fra i vari Stati membri e, quindi, crea una serie di inefficienze mentre non si giova di nessuna economia di scala.

Un’altra implicazione della difesa europea è che è tornata importante anche la massa, la difesa convenzionale. In questo momento la minaccia russa è una minaccia in parte convenzionale e in parte nucleare. Ma la difesa convenzionale è la prima linea della deterrenza. E qui c’è un problema. Nel periodo in cui la NATO era considerata inutile, alla ricerca di un ruolo – fondamentalmente fra il 1989 e l’invasione dell’Ucraina – abbiamo smantellato gli eserciti, nel senso che abbiamo deciso che non ci serviva avere delle forze convenzionali così rilevanti e abbiamo deciso di avere delle forze professionali piccole. Il cosiddetto “manpower”, la destinazione alla difesa di forze più ingenti, è tornato, invece, a essere di attualità. Il terzo grande problema è la dissuasione nucleare, perché effettivamente il nucleare è un tabù in Europa. Lo è dal punto di vista energetico con l’eccezione della Francia, ma lo è anche dal punto di vista militare, nel senso che gli unici due Paesi che hanno delle testate nucleari nell’ordine di 300 ciascuno sono la Francia – che non è integrata nel meccanismo di pianificazione nucleare della NATO – e il Regno Unito – che è uscito dall’Unione Europea e fa parte invece del nuclear planning congiunto della NATO. Come passare a una capacità di dissuasione nucleare che possa prescindere dalla protezione americana è molto difficile da immaginare; tenuto conto che i francesi tendono a dire che la forza nucleare appartiene, naturalmente, a loro.

Nella sostanza: il pollice sul bottone resta quello di Emmanuel Macron. Gli altri non ci stanno, evidentemente, e quindi è tutta una discussione che deve aprirsi. Ma è interessante vedere come, in materia di difesa, alla fine rimanga una diffidenza di fondo fra gli europei e questo spiega l’importanza delle relazioni atlantiche perché la verità è che dopo la Seconda guerra mondiale l’America è stata quello che gli esperti politologi definiscono un grande equalizzatore. Se non fosse stato per l’America – che, in fondo, metteva un po’ tutti d’accordo esercitando il suo ruolo da protagonista – le tensioni sarebbero state molto forti. È solo grazie al fatto che ci sia stata l’America con il piano Marshall e poi con la creazione della NATO che, nel 1949, abbiamo accettato il riarmo tedesco, una cosa che per i francesi era inaccettabile. D’altronde, la diffidenza fra Francia e Germania riaffiora quasi sempre nel momento in cui c’è un minore peso degli Stati Uniti.

UE: i motivi di preoccupazione

L’ultimo punto sull’Europa è che le leadership politiche europee non sono probabilmente all’altezza di tempi come questi, all’insegna della grandissima discontinuità.

Nella trasformazione del sistema internazionale di oggi, che va verso il contagio fra sicurezza, economia e frammentazione, l’Europa non sa come posizionarsi, non ha una politica industriale, non ha abbastanza fondi comuni, non ha la difesa. Ci vorrebbe una leadership politica autorevole rispetto a quella che abbiamo oggi, ma è molto difficile trovarla sul mercato perché la realtà, come dimostra anche l’America, è che la politica è un settore di lavoro squalificato perché ti espone moltissimo, è molto meno remunerativo che in passato e nel quale è molto più difficile ottenere quello che speri di ottenere. Come europei bisogna prepararsi a tempi difficili.

Siamo il continente dove, in fondo, si vive ancora meglio, ma che appare inesorabilmente in declino per le ragioni che abbiamo esposto e, in parte, per ragioni demografiche. Se guardiamo ai processi di aging, di invecchiamento, l’Europa viene per prima; in parte per la grande rivoluzione tecnologica in atto e in cui siamo drammaticamente indietro. Per l’insieme di queste ragioni e per le guerre ai nostri confini dovremmo stare molto attenti come giovani europei. E preoccuparci molto, perché non siamo su una traiettoria virtuosa.

L’articolo è una sintesi dell’intervento a Europa Futuro Presente, sesta edizione della Scuola di formazione politica “Conoscere per decidere”, organizzata da Società Umanitaria, Fondazione Leonardo-Civiltà delle Macchine e Fondazione per la Sussidiarietà, Milano, Società Umanitaria, 2 marzo  2024.

Marta Dassù è giornalista, studiosa di politica internazionale è Senior Advisor European Affairs dell’Aspen Institute

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