L’Italia e l’UE sono in guerra. Pur fingendo di non partecipare. Uniti e solidali solo in apparenza. E ininfluenti. Un protagonismo decisamente mancato. Più o meno consapevoli che la dimensione strategica è degli Stati Uniti. Una cosa è certa: questo conflitto riscriverà i rapporti di forza su scala globale. La Russia con le spalle al muro. Gli USA impegnati allo scontro più atteso e solo rimandato, quello con la Cina. E l’Europa? Prima di tutto riprenda a fare i conti con la storia. E a ragionare con il senso della storia. Una rimozione che non le ha giovato. Solo illuso. È il tempo di ripartire recuperando il senso della realtà dopo trent’anni di follia conformista.
La dimenticanza degli europei
di Gianluigi Da Rold
Sgomenti e increduli, travolti da una tragedia che nessuno pensava che potesse mai più accadere nel cuore dell’Europa. L’invasione dell’Ucraina decisa da Vladimir Putin e dalla Russia neo-imperiale da sempre, fin dai tempi degli zar e poi dell’URSS, che fu tanto spesso elogiata anche dall’Italia uscita dal fascismo, segna una svolta epocale e rivela la fragilità, se non l’incapacità, di un’intera nuova classe dirigente mondiale, europea e italiana, di cogliere il senso della storia e di non prevedere l’orrore della guerra, scambiata, oltretutto, con l’ipocrisia dilagante, come una imprecisata operazione militare.
Abbiamo negli occhi le immagini di questa orrenda tragedia diffuse attraverso i televisori di casa con i nuovi mezzi di comunicazione a tecnologia avanzata. Sono le istantanee terrificanti di Bucha dei primi di marzo, dopo solo una settimana di guerra. Sono stragi ed esecuzioni d massa successe per strada e nelle case delle persone. E c’è la certezza che nell’Ucraina invasa e bombardata, saranno avvenute altre centinaia di “spettacoli di Bucha”.
La tragedia della guerra è stata dimenticata dagli europei, anche quando è noto solo dalle vecchie fotografie e dalle cronache, che nel mondo, dalla fine della Seconda guerra mondiale, ci sono state una sequenza di guerre che rasentano quota cento e nulla di nuovo, per crudeltà, falsità programmata e cinismo, è stato inventato.
La guerra ha una sua terrificante “disciplina”, che ha assunto negli scrittori del passato addirittura il “valore” di arte. Ma quello che stupisce è la superficialità irresponsabile, non solo lo spirito di potenza, che fa nascere le guerre di oggi, quelle dove incombe l’incubo del confronto atomico. Alla faccia del falso “vate” Francis Fukuyama, degli entusiasti del mercato liberissimo, della globalizzazione incontrollata e al servizio di una finanza tanto avida quanto demenziale, la storia ritorna con tutta la sua forza. I disastri con tutta probabilità avvengono sempre perché,
come diceva Rosario Romeo: “Una società che falsifica la sua storia va incontro a terribili conseguenze”.
Basta vedere le immagini del dibattito del 5 aprile al Consiglio di Sicurezza dell’ONU per comprendere che, senza senso storico, senza la primazia dell’“arte del tutto”, cioè della politica e di chi sa farla, si è ritornati ai tempi del “processo di Norimberga” e alla fine della Seconda guerra mondiale. Quando il premier ucraino Volodymyr Zelens’kyj quasi si mette a gridare: “ma a che cosa serve questo Consiglio di Sicurezza dove l’aggressore russo ha il potere di veto? A cosa serve l’ONU se non viene in aiuto di chi è aggredito? A che cosa serve questo organismo che non punisce i crimini di guerra?”, sembra di rivivere, di fronte a queste accuse, la pace di Versailles del 1919, quando la politica, per un certo periodo, andò in pensione perdendo il senso della realtà.
In queste drammatiche parole di Zelens’kyj c’è la storia che va avanti inesorabilmente, riportandoci paradossalmente indietro nel tempo, al 1945, per gli errori fatti da tutti e addirittura condivisi con incredibile superficialità in questi ultimi trent’ anni di “follia conformista”, di “noia parolaia”, di “politicamente corretto” che falsifica la realtà e si preoccupa solo di grandi affari finanziari e pochissimo della convivenza civile degli uomini. È tutto questo che ha scardinato la capacità critica e ci ha portato (speriamo di no) sull’orlo di uno scontro mondiale e atomico.
Il rischio che noi corriamo è quello di andare incontro a due tragedie: una guerra infernale, mai vista, e una crisi economica su cui gli economisti da talk show vaneggiano e quelli seri non riescono a intravedere nulla o a fare realistiche previsioni per il futuro.
È per questa ragione che, al momento, noi ci limitiamo a denunciare errori che ci paiono grossolani di questo relativamente recente passato, ma ci asteniamo dal partecipare a un dibattito, confuso come quello che si sta facendo, tranne che nella totale solidarietà agli ucraini, di fronte a una tragedia come la guerra.
E a proposito di questo “grande e pericoloso gioco” provocato dall’invasione russa, lasciamo la parola a una persona che da anni studia le vicende di geopolitica; a un analista come Lucio Caracciolo che ci ha inviato un estratto dell’editoriale per il numero di aprile del mensile Limes, la rivista che dirige. Forse, leggendolo, si comincerà a interrogarsi su che cosa significa una grande svolta storica.
Il tempo di recuperare il tempo
di Lucio Caracciolo
Eccoci di nuovo in guerra senza volerlo né saperlo ammettere a noi stessi. Comunque finisca, noi italiani abbiamo perso quanto credevamo ci spettasse per divina provvisione: la certezza della pace in Europa. Siamo cobelligeranti per ora a distanza nella guerra alla Russia cui fingiamo di non partecipare. Insieme ai soci euroatlantici e agli altri occidentali, compresi finti neutri del calibro di Svezia, Finlandia, Austria e Svizzera. Uniti e solidali in apparenza, più divisi di sempre sotto la soglia della propaganda. Lo confermano le pagelle assegnate in videoconferenza da Zelens’kyj ai leader dei Ventisette, neanche fossero scolaretti. Tutti abbastanza ininfluenti nella dimensione strategica affidata agli USA. Grado al quale, conclusa questa fase della guerra, saranno riscritti i rapporti di forza su scala globale. E che dopo la (provvisoria?) rinuncia russa a Kiev e l’avvio di negoziati seri destinati a iniziare un percorso di tregue interrotte, certo non di vera pace, avrà molto a che vedere con l’esito tattico dello scontro sul terreno ucraino fra l’aggressore russo e la resistenza locale variamente supportata dai soci atlantici. Specie polacchi, baltici, britannici e americani, in ordine di entusiasmo. Fronte che ha costretto Mosca a ripiegare, per ora, sull’obiettivo minimo: la verticale che dalla Federazione Russa intende collegare il Donbass allargato alla Crimea e a Sebastopoli.
Il grave errore della Cina
La campana che Putin ha fatto suonare il 24 febbraio sarà pure eco di quella balcanica, ma batte il ritmo di una sfida incommensurabilmente superiore. Doveva celebrare il fulmineo trionfo della grande potenza russa, tale da indurre l’America a riammetterla nell’ordine europeo. Quasi Washington potesse archiviare senza combattere il bottino conquistato in due guerre mondiali. Con mossa da judoka – sbeffeggio al Putin cintura nera – gli americani hanno fatto leva sull’avventurismo del Cremlino. Senza ufficialmente schierare un solo uomo sul terreno ma avendo armato da anni gli ucraini. E stringendo devastanti sanzioni economiche al collo della Russia. Quindi indirettamente al nostro. In memoria di Poos, deceduto cinque giorni prima dell’invasione.
Ci par di sentire il brusio dei complottisti, per i quali Putin è caduto nella trappola della CIA. Mentre ci sovviene l’irritazione dei dirigenti ucraini, che per mesi avevano implorato la Casa Bianca di non annunciare l’imminente attacco russo – cui non credevano – incentivo alla fuga di capitali e capitalisti (oligarchi) dalla patria minacciata. Ammette a fine marzo Mykhailo Podoljak, delegato ucraino al negoziato con i russi: “Siamo sorpresi. Perché la NATO ha dichiarato tanto presto che in caso di guerra non sarebbe intervenuta? Così ha invitato la Russia all’escalation”. Forse per una volta i complottisti vedono giusto. Nel caso, riconosceremmo ai beffeggiati clowns in action o certified idiots of America (autodefinizioni degli ironici intellettuali annidati nella Central Intelligence Agency) il merito di una sofisticata operazione coperta che sta deviando il corso della storia. A confermarlo parrebbe la confessione privata di un anonimo alto esponente del governo americano allo storico Niall Ferguson, a invasione appena iniziata: “L’unico finale di gioco è la fine del regime di Putin. Fino ad allora, per tutto il tempo in cui Putin resterà al potere, la Russia sarà uno Stato paria mai più riammesso nella comunità delle nazioni. La Cina ha commesso un enorme errore pensando che Putin se la potesse cavare. Constatare come la Russia sia tagliata fuori non sarà per Pechino uno spettacolo incoraggiante, sicché dovrà riesaminare l’asse sino-russo. Tutto sembra rivelare che la democrazia e l’Occidente potranno guardare a questo momento come a una svolta che ci rafforza enormemente”. E Biden a chiudere il cerchio il 26 marzo a Varsavia, nel più tipico dei suoi momenti di sincerità, che la diplomazia bolla gaffe: “Perdio, quest’uomo non può restare al potere!”.
Un classico scontro per procura
Il Blitzkrieg di Putin s’è arrovesciato in controffensiva del Numero Uno contro il Numero Tre, affinché il Numero Due si arrenda senza combattere. Duello nel quale la Russia – non solo il suo presidente – si gioca la vita. Mentre l’America cerca di sbarazzarsi di Putin – fors’anche della Russia – in un classico scontro per procura. A rischio di perderne il controllo.
Se vincerà questa semifinale, potrà concentrarsi sulla partita del secolo inaugurata ventitré anni fa a Belgrado, contro la Cina privata dello scudo russo. Circondata per terra e per mare.
Ce ne dovrebbe essere abbastanza per riprendere coscienza di noi stessi e dei pericoli che corriamo. Il condizionale a segnalare quanto ardua sia l’impresa, tre generazioni dopo l’ultima (?) guerra mondiale. Da cui siamo emersi felici e imbambolati, avendo rimosso la storia. Quasi non sapessimo che ogni dopo-guerra è sempre un pre-guerra. Vale anche per la formidabile stagione di pace e benessere scandita per noi euroccidentali dalla resa incondizionata della Wehrmacht, l’8-9 maggio 1945.
Teniamo a mente quanto osserva Romano Ferrari Zumbini, storico del diritto, nella sua apologia del tempo: “Nel momento in cui una comunità non sa più ragionare con il senso della storia, non sarà la storia a sparire ma quella comunità”. Abbiamo il tempo di recuperare il tempo? Sì. A patto di cominciare subito.
(Dall’editoriale del volume di Limes 3/2022, La fine della pace)