I versi del grande lombardo che aprono e connotano il Macbetto restituiscono tutto il peso umano dell’intrusione, in questo presente (in tutti i presenti) della guerra nel cuore dell’Europa. Con lingua potente, declamata dal coro, la riscrittura della tragedia shakespeariana, denuncia il precipizio antropologico nel quale siamo sprofondati. Parole come carta vetrata che trascendono qualsiasi richiamo morale. Uno sguardo realista per dire che la rinascita o nuova nascita non appartiene ai buoni propositi dei singoli
“Merda, sangue, merda! Cos’è la guerra sia che si svincia sia che si perda. Merda, sangue, merda!”. Sono i versi desolati che aprono Macbetto, testo teatrale di Giovanni Testori, messo in scena nel 1974 con Franco Parenti protagonista e Andrée Ruth Shammah regista. Sono versi in una lingua potente e reinventata, declamati dal coro, per questa riscrittura della tragedia shakespeariana; versi che in queste settimane più volte abbiamo visto richiamati e rilanciati sui social a commento amaro della guerra scatenata da Putin in Ucraina.
La tragedia di Macbeth è una tragedia cupa, dove i protagonisti sono ostaggio di una spirale da cui non riescono a sottrarsi, neanche quando la coscienza accenna a incrinarsi. È la spirale della guerra come strumento per acquisire e presidiare il potere: lo testimoniano tanti film dedicati a questo personaggio, compreso il recente Macbeth di Joel Coen, con Denzel Washington protagonista. Un film contraddistinto da una fotografia ossessiva e soffocante: il mondo inghiottito dalle logiche della guerra e dei delitti senza scrupoli è un mondo privato dell’aria stessa per respirare. Quando Testori aveva messo in scena quell’opera – secondo spettacolo scritto per uno spazio teatrale nuovo, fondato in cooperativa nel 1973 (allora si chiamava Salone Pier Lombardo, oggi Teatro Franco Parenti) – sul mondo pesava una guerra geograficamente lontana ma molto presente nel dibattito pubblico: la guerra del Vietnam. Testori però prescinde da ogni riferimento specifico e lancia quella sua invettiva come un grido che trapassa il tempo e riguarda ogni tempo. Proprio questa sua natura “decontestualizzata” lo rende un messaggio che affonda nell’umano e mette a nudo l’azione sempre incombente del male. La guerra per Testori è ipostatizzazione del male, situazione in cui il male prende il governo assoluto della vita e della coscienza degli uomini, indipendentemente dai buoni propositi dei singoli.
Parole drastiche e ruvide
Nella tragedia di Testori il coro ricopre un ruolo di vittima inconsapevole e di osservatore fuori scena che non censura nulla di ciò che vive e di ciò che passa davanti agli occhi. Non si schiera, perché la guerra è una dinamica che sopraffà ogni logica, intimidisce i semplici, prosciuga le energie morali. È un coro di brutalizzati dalla guerra, anche in senso fisico, come loro stessi testimoniano; con quelle parole così drastiche e ruvide, a loro volta brutalizzano ogni possibile idealismo legato all’esperienza della guerra. Testori, che ricorrendo alla funzione del coro fa una scelta di stampo verdiano, lo spoglia però di ogni idealismo e sentimentalismo. Nel deserto che la guerra si lascia dietro le spalle non ci sono appigli per distanziarsene. L’unica condizione che resta praticabile è quella servile, perché la guerra asservisce, come aveva amaramente constatato Albert Einstein nel celebre carteggio con Sigmund Freud del 1933. Il coro è figlio, suo malgrado, di un precipizio antropologico: dentro di noi nulla cambia, ammettono i suoi membri con triste sincerità. Il corrispondente visivo di questo coro, esito dell’immaginazione dello scrittore, lo si può trovare nei Disastri della guerra, l’impressionante serie di 82 incisioni realizzate da Goya tra 1810 e 1815 per dare una rappresentazione alla devastazione causata dal conflitto civile tra filofrancesi e filoborbonici in Spagna. Anche Goya, che pur parteggiava per i francesi, evita i distinguo: la guerra produce un inselvatichimento dell’umano davanti al quale anche la parte giusta finisce per andare all’ammasso. È una rappresentazione che, come accade con la scrittura in Testori, costringe a rinunciare a ogni estetismo formale, dà vita sulla carta a forme che vengono implacabilmente frantumate, come se fossero viste da un occhio reso lui stesso strabico e mezzo cieco. Un occhio, quello di Goya, che intercetta detriti visivi, risucchiato da una disperata fretta. La lucidità “grafica” così spietata del grande artista è parallela alla scrittura imbarbarita e disincantata di Testori: la forma espressiva assume più forza di ogni possibile ricostruzione narrativa. E, allo stesso tempo, chiude lo spazio a ogni possibile richiamo morale.
La natura maligna della guerra
Nella riscrittura del Macbeth, lo scrittore lombardo introduce un’altra intuizione emblematica. Le streghe che svelano il destino al protagonista, anziché essere delle apparizioni sono generate dallo stesso Macbeth. Le forze istigatrici non sono quindi forse esterne che arrivano a contaminare e a deviare la storia, ma sono fattore interno. Il male viene da dentro, monta nella coscienza dell’uomo e la trascina in questa parabola rovinosa. È una prospettiva metastorica che però, invece di risultare astratta, arriva a scandagliare con realismo e brutale concretezza un risvolto dell’umano. La radice della guerra è innanzitutto nel cuore dell’uomo. I fattori storici sono degli inneschi che scatenano quest’ombra che cova e generano un impazzimento drammaticamente contagioso.
C’è un’ulteriore intuizione molto plastica, quasi plateale e grottesca, nel dramma di Testori. Quando il destino di Macbeth appare ormai segnato, quando le streghe si riaffacciano per disegnare l’illusione di un’invincibilità (nessun nato da donna potrà spodestarlo e vincerlo), ecco che la guerra sfodera l’ultima sua imprevedibile arma. Anche in questo caso l’immaginazione dello scrittore, formulando un’ipotesi fantastica, si trova allineata con le ipotesi più fosche emerse in questa attualità. È l’immagine della guerra che uccide senza più bisogno di armi e di violenza fisica. Che annienta le persone attraverso l’aria. Ma non c’è bisogno di laboratori, di scienziati e di tecnologie faustiane. Ancora una volta, metaforicamente, è da quel nucleo male annidatosi nell’uomo che si sviluppa il veleno destinato a rendere mefitica e mortale l’aria, diventata strumento di sterminio. L’arma chimica è figlia di una coscienza inghiottita dal male.
La riflessione di Testori porta dunque ad affrontare in modo radicale la questione dell’origine della guerra, di ogni guerra. Ne ribadisce la natura intrinsecamente maligna, esito estremo del peccato originale. È uno sguardo realista, che si muove lasciandosi guidare dallo sguardo di Isaia, quando ammoniva che “gli uomini, in quanto peccatori, sono e saranno sempre sotto la minaccia della guerra fino alla venuta di Cristo”.
CORO
Merda, sangue, merda!
Cos’è la guerra
sia che si svincia,
sia che si perda?
Merda, sangue, merda!
Riesci a vardarmi te?
Sangue vardo, sangue e merda,
merda e sangue come in me!
Se mi tocchi, cosa senti?
Dillo, te!
Sento un braccio,
sento un braccio che non c’è!
A me un piede, varda,
un piede manca anche a me!
Una femora, tocca te,
una femora cala a me!
Oh, e i labbri? Varda i labbri!
Sono in aria i labbri andati!
Dove i denci? E la mia gola?
La laringia mia dov’è?
E l’oreggia? E la carcassa?
Tocca! Tocca!
Mi s’è tutta discioppata la faciassa!
Il pormone è perforato!
L’intestino è strasquartato!
Il cervello, te, il cervello!
Il cervello s’è spaccato!
Voso e vurlo per ciamare
la mia sposa e la mia mamma
perché incontra mi vegniscano
a ‘bracciare,
ma la bocca vurla e vosa
domà: merda, sangue, merda!
Ecco qui cos’è la guerra,
sia che svincia, sia che perda!
Merda, sangue, merda!
(Giovanni Testori In Trilogia degli Scarozzanti: L’Ambleto, Macbetto, Edipus, Feltrinelli, Milano 2021)