Leggere e riflettere sull’intervento dell’allora presidente del Parlamento europeo all’edizione 2021 del Meeting per l’Amicizia fra i Popoli. Un vero e proprio testamento umano e politico. Di speranza e di prospettiva, senza censurare nulla delle complessità che attraversano l’Unione Europea. “La crisi del Covid ci dice in cosa la nostra democrazia europea deve migliorare e dove il rapporto tra Unione Europea e Stati nazionali debba cambiare”. Adesso che quell’emergenza parrebbe raffreddarsi, l’Europa vive al suo interno il dramma della guerra. E molti dei suoi pensieri espressi ad agosto contengono preziosi elementi di analisi e di riflessione per comprendere quel che di tragico sta accadendo. Per ragionare sul significato autentico di un Europa unita e solidale. Una provocazione per tutti e a tutti i livelli. E ciò spiega la statura dell’uomo politico con una visione.
Come avviene da tempo, il Meeting invita a riflessioni profonde e in questo caso anche a bilanci importanti. Soprattutto invita a cogliere quelle dinamiche che la contemporaneità sviluppa proponendoci scene inedite e sempre più complesse. Lo stesso tema “Il coraggio di dire ‘io’”, si presta a diverse considerazioni a seconda dell’ambito in cui si declina: richiama il desiderio di rafforzare la nostra responsabilità, di non comprimere l’originalità di ogni persona, di aumentare la partecipazione alla vita sociale. Non sfugge a nessuno che la crisi del Covid, così drammatica e profonda, costituisca uno spartiacque fra un mondo noto, che abbiamo imparato a conoscere, e uno scenario nuovo, che ancora facciamo fatica a immaginare e interpretare, nel quale identificare la nostra presenza. Molto ancora ci sfugge e capiamo che la moviola della storia non si può riavvolgere facendoci tornare al mondo di prima, ma al tempo stesso vi è un senso di forte inquietudine che impedisce ancora di scrivere pagine nuove per un tempo nuovo.
Testimoni in carne e ossa
Non dobbiamo avere paura della crisi, non dobbiamo rassegnarci a un’opportunistica passività. Questo è un tempo di pericoli inediti ma anche di straordinarie opportunità, perché tutto quello che abbiamo costruito nella seconda parte del Novecento, sviluppando nei nostri Paesi democrazia e libertà, è chiamato oggi a confrontarsi con processi globali molto rischiosi, certamente complessi.
La nostra idea di persona, di inviolabilità della vita umana, l’affermazione dei diritti universali, l’ispirazione allo sviluppo integrale della persona, sono gli ingredienti con cui noi ci presentiamo alle nuove sfide. Saranno sufficienti? Il traguardo di un nuovo umanesimo è certamente possibile, ma non è scontato. E dobbiamo tutti quanti ringraziare il presidente della Repubblica Mattarella che proprio qui, all’apertura del Meeting, ha rilanciato la necessità di aggiornare il nostro personalismo. Abbiamo bisogno di un pensiero all’altezza della sfida lanciata dalla contemporaneità e, insieme, abbiamo bisogno di testimoni in carne e ossa, di coerenze individuali, di storie di vita, di amicizia.
Il magistero di Papa Francesco, da questo punto di vista, è molto impegnativo per i cattolici e non è un caso che qualcuno (anche tra i cattolici, va detto) si metta nella posa del giunco in attesa del passaggio dell’onda di piena. La radicalità evangelica è più forte di una dottrina e interroga nel profondo le nostre coscienze, chiamandoci a essere fedeli nella quotidianità, nell’incontro con l’altro, con chi è più debole; e insieme ci sfida a essere nella storia con l’animo dei costruttori. D’altronde, lo sappiamo, il dono è l’energia che costruisce le comunità
e le rende più forti, non l’egoismo, come sostiene un liberismo che si presume egemone.
L’idea di persona è indissolubilmente legata a quella delle formazioni sociali, dei mondi vitali, delle comunità intermedie. E la libertà non è mai divisibile: non c’è libertà personale senza la libertà del vicino; non c’è libertà se accanto a noi ci sono sfruttamento, dipendenza e servitù; non c’è libertà della persona senza la libertà delle comunità.
Ha scritto molto bene Edgar Morin (ha appena compiuto cento anni ma non smette di aiutarci a riflettere) che l’unica cosa in grado di proteggere la libertà è la presenza costante nello spirito dei suoi membri della loro appartenenza solidale a una comunità e di un sentimento di responsabilità nei suoi confronti.
La pandemia ci dice molte cose su noi stessi: ci ha fatto capire quanto dipendiamo dagli altri, ma anche quanto sia possibile riconnettere la politica con la persona. Ci ha mostrato con chiarezza quali strumenti siano idonei ad affrontare le nuove sfide e, nello stesso tempo, dove siamo fragili, inefficaci, dove dobbiamo migliorare. La crisi del Covid ci dice in cosa la nostra democrazia europea deve migliorare e dove il rapporto tra Unione Europea e Stati nazionali debba cambiare.
Le lezioni del Covid sono tante, non mettiamole in un cassetto. Prima la persona: è ancora alla nostra portata. E nessuna sfida, nessun confronto geopolitico, nessuna crisi può derubarci della voglia di proteggere la nostra identità. Basta sapere, però, che non possiamo farlo da soli, come abbiamo fatto nel secondo dopoguerra o come abbiamo creduto fosse possibile al solo Occidente bastando a se stesso. Siamo fiduciosi perché l’azione di contrasto alla pandemia in Europa poteva avere un corso molto diverso, senza le scelte che sono state fatte dalle nostre istituzioni comunitarie. Senza l’Unione Europea avremmo avuto conflitti tra le nazioni: sulla ricerca dei vaccini, sulla politica sanitaria, sull’assistenza a chi si è trovato senza lavoro; avremmo compromesso Shengen e rialzato le frontiere; non avremmo potuto condividere il debito e non vi sarebbe stato un poderoso sostegno alle economie nazionali.
La tragedia ha provocato una vera rivoluzione nella risposta europea, che voglio riassumere in cinque passi.
Primo: le regole del fiscal compact sono state sospese fino al 2022 e si sta ragionando sullo scenario post Covid. Abbiamo bisogno di regole, ma di regole nuove.
Secondo: con l’azione europea gli Stati nazionali hanno aumentato sensibilmente il loro rapporto debito/Pil per difendere famiglie e imprese dallo shock economico e sociale prodotto dalla pandemia.
Terzo: abbiamo vissuto il paradosso di non aver mai avuto a disposizione tante risorse per investimenti come in un momento di crisi come questo. Anche questo non era mai avvenuto e si tratta, di fatto, di una forma di condivisione del rischio tra Paesi membri che, prima della pandemia, era rigidamente proibita, esclusa.
Quarto: le banche centrali hanno acquistato fino al 25 per cento dei titoli pubblici dei Paesi membri e la Banca centrale europea pianifica, se necessario, di arrivare fino al 33 per cento evitando in questo modo che l’aumento del debito si trasformi in crisi degli spread sui mercati finanziari; questo impegno all’acquisto dei titoli da parte della Bce ha reso il debito sostenibile.
Quinto: tutto questo è stato possibile in cambio di buona condizionalità sull’uso dei fondi. Le risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza – il PNRR – vanno spese bene, avendo a mente obiettivi precisi (come quelli della digitalizzazione, della transizione ecologica) e tempi certi definiti dall’Unione Europea su cui anche l’istituzione che io presiedo sarà chiamata a vigilare.
Il nuovo attivismo della Banca Centrale Europea
L’esperimento, cari amici, ha avuto pieno successo. Famiglie e imprese sono state tutelate, per quanto possibile, rendendo questa crisi molto diversa da quella del 2009. È una rivoluzione macroeconomica che fa sì che le risorse siano state disponibili e che il conto sia più leggero grazie all’aumentato attivismo della Banca Centrale Europea e alle emissioni comuni di titoli. Nel 2009, lo ricorderete, la crisi finanziaria bruciò risparmio privato, colpì asimmetricamente solo il sud dell’area euro e non fu consentito contrastarla con politiche fiscali e monetarie espansive. Oggi la crisi è stata simmetrica, tutti i paesi dell’Unione hanno solidarizzato tra loro consapevoli di trovarsi sulla stessa barca e le politiche monetarie e fiscali aggiuntive hanno evitato la distruzione del risparmio e messo a disposizione risorse monetarie. Pensate che i depositi bancari in Italia sono cresciuti di quasi novanta miliardi e tutto questo costituisce il carburante della ripresa che stiamo osservando.
Siamo entrati insomma in terreni inediti. E ora che abbiamo scoperto che gli equilibri macroeconomici reggono, sarebbe certamente una follia tornare indietro. Pensiamo solo a cosa vorrebbe dire restaurare l’obiettivo del fiscal compact e obbligare i nostri Paesi a convergere su un rapporto debito/Pil del sessanta per cento: sarebbe un modo per uccidere famiglie e imprese, per strozzare tutti gli Stati nazionali, per mettere in ginocchio l’Unione Europea.
È pertanto essenziale che i cinque passi che abbiamo ricordato vengano confermati. Qui la questione diventa molto politica, perché la vera sfida (già vediamo molti ambienti scommettere su un ritorno alle regole di prima) sarà prendere coscienza che ciò che è stato fatto durante la pandemia deve diventare la nuova politica economica dell’Unione. Per questo una domanda è d’obbligo: le risorse e le politiche messe in atto dall’Unione Europea dovranno concludersi con la fine dell’emergenza sanitaria ed economica, come chiedono alcune forze liberiste conservatrici, oppure le energie dispiegate nella lotta alla pandemia e alla crisi sociale dovranno trasformarsi in una nuova impalcatura di politiche pubbliche europee e, di conseguenza, anche in un rinnovamento istituzionale dell’Europa comunitaria?
La risposta a questa domanda non è un gioco enigmistico. È la questione da cui discendono tutte le altre questioni, perché dalle conclusioni che trarremo dipenderà anche la nostra capacità di affrontare il mutamento climatico e il grande progetto di riconversione verde al quale abbiamo legato lo sviluppo dei Paesi europei nei prossimi decenni. E non solo. Confermare le scelte fatte e farle diventare permanenti consentirà all’Unione di assumere personalità politica nella scena internazionale, e in questo periodo ci rendiamo conto di quanto ciò sia importante, anzi fondamentale. Se non si fossero abbandonati gli strumenti, le regole, i paradigmi che erano in vigore solo due anni fa, saremmo stati oggi in partita, avremmo potuto ottenere i risultati che abbiamo ottenuto?
Nuovi equilibri per il dialogo con i più distanti
Questa è la grande sfida storica che abbiamo di fronte. La svolta compiuta con il Next generation EU ci dà una grande chance: far mettere radici a una nuova politica europea di crescita e sviluppo per tutti. Nei prossimi due-tre anni ci giochiamo le nostre possibilità per i prossimi venti anni, e a nessuno sfugge che il successo o l’insuccesso dipenderanno molto dall’Italia: se il nostro Paese dimostrerà di utilizzare in modo virtuoso i soldi del PNRR, la nuova politica economica potrà affermarsi e i cinque passi fondati sullo scambio di politiche espansive, condizione del rischio, interventismo della BCE, uso appropriato delle risorse, potranno garantire la scrittura di quelle pagine nuove nell’esperienza europea che tutti o molti di noi si aspettano. E soprattutto potranno consentire di affrontare i rischi e le incertezze del mondo nuovo con responsabilità e coerenza. Un fallimento, invece, costerebbe molto caro non solo all’Italia, ma anche all’intero progetto europeo.
Chi pensa di mettere tra parentesi quanto accaduto, di limitare tutto all’emergenza per tornare alle politiche precedenti, rischia di far piombare l’Europa in una crisi strutturale dagli esiti imprevedibili, ma certamente molto negativi. La sfida di questo tempo, insomma, ci impone di vivere questo crinale della storia abbandonando la logica emergenziale: è vero, siamo partiti da un’emergenza, ma ora possiamo progettare – grazie al lavoro delle istituzioni europee e nazionali – la nuova Europa e un’Italia rinnovata in una Europa rinnovata. Questo è il vero bandolo della matassa di questa fase politica, questa è la priorità della nostra agenda. In Italia abbiamo un governo a cui chiediamo stabilità, prima di tutto; un governo che non è espressione di una formula politica tradizionale: ma sarebbe sbagliato, credo, racchiudere la sua esperienza in uno stato d’eccezione temporalmente limitato. Se la partita più importante, quella decisiva, si gioca in Europa, è con l’Unione Europea che vanno sincronizzati i tempi delle politiche nazionali. E lo stesso concetto di stabilità non può ridursi a esorcizzare momenti di crisi. L’interesse del Paese, che a mio giudizio coincide con il più autentico interesse europeo, è che il cambiamento dell’Europa si radichi, diventi strutturale e molti degli strumenti adottati diventino permanenti. Ecco perché ritengo che la missione del governo non possa esaurirsi nel completamento della vaccinazione, nell’avvio del PNRR (pur essendo impegni molto importanti), ma debba riguardare la stabilizzazione della svolta europea. La stabilità italiana, insomma, è un progetto politico e non solo una condizione per affrontare una stagione difficile; ha senso perché serve a consolidare la svolta avvenuta in Europa e, di conseguenza, nelle nostre politiche nazionali di bilancio, di investimento e di coesione sociale.
Prima della pandemia, a governare le istituzioni europee vi erano regole e indirizzi che penalizzavano la solidarietà in nome di un rigore spesso astratto, ingiusto, che ha prodotto forti disuguaglianze, ha frenato lo sviluppo e dunque la crescita del continente nella competizione globale. Rendere stabile e dare radici al cambiamento iniziato con il Green Deal ci consente oggi di adottare una vera strategia di cambiamento.
Potremmo permetterci di dire che, conclusa l’emergenza, l’Europa possa tornare quella di prima? Molti di noi sono convinti che il Green Deal debba dispiegare i suoi effetti; che l’unione fiscale e bancaria debba prendere nuove forme istituzionali più comunitarie, con meno poteri di veto, con maggiori sinergie tra Paesi che condividono valori di libertà e democrazia; che lo spirito di solidarietà possa consentire di sviluppare politiche comuni utili ai nostri Paesi e alle nostre opinioni pubbliche. Se l’Europa rafforzerà le società e le comunità in termini di sviluppo, avrà più forza per affermare nel mondo i valori civili e democratici che sono parte della nostra identità.
Sono stato in Lettonia, Lituania, in Estonia, nei Paesi Baltici, Paesi alle prese con un duro confronto con l’integrità delle nostre frontiere. Il tema della sicurezza dello spazio europeo, minacciato da guerriglie ibride o attacchi informatici che tentano di condizionare il nostro stile di vita e le nostre democrazie, è una priorità che non possiamo evitare. Come non possiamo permetterci di trascurare le crisi umanitarie che interessano il Mediterraneo e adesso, ad esempio l’Afghanistan. È chiaro che la drammatica crisi afghana riguarda l’Europa. La sconfitta dell’Occidente mette in discussione la nostra identità nel contesto globale, ma non possiamo diventare spettatori sconcertati e impotenti. L’indignazione diffusa tra noi, i timori legati alle scelte dei nuovi governanti, le coscienze ferite dei nostri popoli rischiano di disperdersi nell’aria senza un’assunzione di responsabilità comune dell’Unione Europea. Non si tratta certo di separare le due sponde dell’Atlantico, anzi, al contrario, si tratta di comporre un nuovo equilibrio in cui l’Europa riesca finalmente a mettere in comune ciò che finora non ha fatto: la politica estera e la politica di difesa. In attesa di capire meglio quali saranno i passi da compiere nei confronti delle nuove autorità afghane (pensiamo sia un valore etico, certamente lo è), è irrinunciabile fare ogni sforzo per garantire sicurezza a tutti coloro che in questi venti anni hanno collaborato credendo in noi. Se crediamo alla forza della diplomazia, saremo sempre disponibili al dialogo anche con coloro che sono molto distanti da noi.
Il confronto con la Cina
Ma a tendere la mano bisogna essere in due e non basta volersi sedere a un tavolo se poi non si accomoda anche la controparte. Dobbiamo sapere che la nostra capacità di risposta dipenderà dal grado di solidarietà che sapremo dimostrare al nostro interno, nel costruire politiche europee comuni. Senza una politica sanitaria europea, come potremmo affrontare le prossime sfide che arriveranno dopo il Covid-19? Senza una politica della sicurezza comune saremo fragili, esposti alle minacce dei regimi autoritari. Senza una chiara politica europea non potremo sostenere il confronto con la Cina. Senza una politica europea per l’immigrazione e l’asilo non saremo in grado di affrontare le sfide future: nei prossimi anni infatti, dal Sahel all’Asia, si vedranno in movimento milioni e milioni di persone che guarderanno a noi Europa come terra del loro rifugio. L’Italia, in tutto questo, ha un ruolo decisivo per la conformazione e per il destino dell’Europa e la sua stabilità. Non dobbiamo dimenticare che ne è un prerequisito nel breve e nel medio periodo.
Siamo partiti dalle nuove sfide a cui ci chiama il mondo globale, dalle inquietudini rispetto alla complessità dei problemi che abbiamo di fronte, ai rischi e alle pressioni a cui siamo sottoposti, ma come sempre, cari amiche e cari amici, tutto si tiene. E a noi europei oggi è chiesto di partecipare a scrivere le regole del mondo globale: ne abbiamo la possibilità e ci dobbiamo credere perché siamo ancora in grado di connettere la responsabilità individuale a uno spazio plausibile che è la dimensione europea. Lo avevamo capito già prima, ma oggi il Covid lo ha reso più evidente; lo avevamo detto anche qui al Meeting due anni fa: solo la sovranità comune europea può consentire di dare senso e respiro alla sovranità nazionale. È una dinamica che si è capovolta nel processo di integrazione e che oggi in questo momento è molto chiara.
“Il coraggio di dire ‘io’” quindi per me chiama a una forte responsabilità individuale e collettiva e alla consapevolezza che noi europei siamo chiamati ancora una volta a partecipare a una grande opera di liberazione dell’uomo.
L’intervento è stato pronunciato nell’ambito dell’incontro “Europa, nazioni, regioni.
La verticalizzazione del potere?”, che si è svolto a Rimini, domenica 22 agosto 2021,
durante il Meeting per l’Amicizia tra i popoli