Nella nascita e nel percorso di costruzione dell’Unione Europea il pensiero sociale della Chiesa, aggiornato nell’enciclica Quadragesimo anno di Pio XI, ha rappresentato l’architrave culturale e politica. Intesa come condizione per il consolidamento della democrazia e anche di aiuto reciproco o cooperazione. Facendo leva sul concetto di federalizzazione della società ha preso forma un’UE quale espressione di potere sociale sussidiario e non a trazione di sovranità popolare centralizzata. In un mondo globalizzato e a forte indirizzo finanziario, dalla federazione sociale può venire un sostegno importante alla difesa delle democrazie. La sussidiarietà ha oggi una straordinaria opportunità: pensare, progettare e costruire reti sociali di sostegno e di governo dei bisogni secondo una cultura che è distante da una visione centralistica statuale alla maniera, appunto, degli autoritarismi.
Questo contributo inerente il tema della sussidiarietà si propone di tenere insieme due registri: una prima parte focalizzata su una breve ricostruzione storica; una seconda sull’apporto che essa può fornire alla ripartenza dell’Europa. Per venire subito al nocciolo della questione, la sussidiarietà storicamente rappresenta il pilastro della politica sociale del mondo cattolico. Si tratta di un pensiero, nato all’interno della Chiesa, che ha avuto una rilevante diffusione e quindi riconoscimento nell’Europa. Come noto l’espressione sussidiarietà viene alla lingua italiana come sostantivo dal latino auxilium subsidium, attraverso la traduzione tedesca dell’enciclica Quadragesimo Anno (15 maggio 1931) di Pio XI scritta in occasione del quarantesimo anniversario della Rerum Novarum di papa Leone XIII.
La Quadragesimo Anno è stata molto importante perché – oltre al fatto di celebrare e rafforzare i contenuti dello storico documento di Leone XIII – esce nel 1931 mentre in Italia vige una forma di totalitarismo; nel senso che la società civile è inglobata in progetti che afferiscono alla legislazione corporativa dello Stato fascista. E, per altro verso, l’enciclica di Pio XI definisce e motiva un pensiero sociale nel momento in cui sono presenti regimi comunisti a loro modo totalitari. In mezzo vi è un liberalismo che langue ma che, secondo il pensiero sociale cattolico, non è innocente perché all’origine di un individualismo che non disdegna uno Stato fortemente coercitivo e debolmente sociale; secondo la lettura della Quadragesimo Anno, quel liberalismo è all’origine dell’edificazione degli Stati totalizzanti, veicolo che può accoppiarsi con le due forme di statalismo dominanti: quello corporativo fascista e quello anomico comunista.
Contro queste possibilità contenute nella teoria moderna della sovranità e nel liberalismo individualista, ma non per negare l’individuo e non per negare lo Stato, piuttosto per criticarne “gli ismi” a cui questi termini hanno dato vita, la Quadragesimo Anno avanza un’operazione di rilevante interesse. Comunque la si voglia giudicare occorre riconoscere che l’iniziativa e i contenuti del documento papale ci consegnano un grande coraggio e un pensiero lungimirante che apre a una prospettiva futura nei termini di una nuova e chiara formulazione e formazione di società. Laddove si ritiene necessario adoperarsi per dare allo Stato e all’individuo nuovi ruoli in opposizione agli “ismi”.
La Quadragesimo Anno insiste dunque sulla novità della federalizzazione della società, concetti esplicitati in almeno due articoli dell’enciclica e da riesaminare con attenzione. Mi riferisco al 79 e all’80. Si legge, infatti: “Quando parliamo di riforma delle istituzioni, pensiamo primariamente allo Stato, non perché dall’opera sua si debba aspettare tutta la salvezza, ma perché, per il vizio dell’individualismo, come abbiamo detto, le cose si trovano ridotte a tal punto, che abbattuta e quasi estinta l’antica ricca forma di vita sociale, svoltasi un tempo mediante un complesso di associazioni diverse, restano di fronte quasi soli gli individui e lo Stato”.
È una efficace descrizione che ci riporta indietro anche al pensiero di Alexis de Tocqueville, e continua così: “e siffatta deformazione dell’ordine sociale reca non piccolo danno allo Stato medesimo, sul quale vengono a ricadere tutti i pesi, che quelle distrutte corporazioni non possono più portare, onde si trova oppresso da una infinità di carichi e di affari”. Quindi il tema è quello di ridurre il ruolo dello Stato non – come lo volevano i liberali classici – semplicemente a luogo della gestione del potere coercitivo ma anche, se non principalmente, come autorità responsabile e capace di intervento sociale. Beninteso, un intervento sociale che è opportuno si attui in maniera indiretta attraverso l’agire delle associazioni della società civile. Oggi, si direbbe, imponendo regole, controllando e, naturalmente, come abbiamo visto con l’Unione Europea collocando al centro, anzi al di sopra, il rispetto dei diritti e quindi il ruolo delle corti.
La missione dei grandi architetti dell’Unione Europea
È in questa veste che la sussidiarietà entra nella vita politica delle società europee dopo la Seconda guerra mondiale. E vi entra in modo significativo perché i grandi ingegneri o architetti dell’Unione Europea erano in maggioranza di provenienza cattolica, da Robert Schuman a Konrad Adenauer ad Alcide De Gasperi. E, naturalmente, al loro ispiratore ideale Jacques Maritain. L’idea che sosteneva il loro agire politico era quella di promuovere una costruzione dell’Europa non di segno statalista. Ecco allora che la sussidiarietà si offriva come un’occasione straordinaria da spendere. In quanto, da un lato riconosceva la separazione di funzioni tra lo Stato e la società, separazione che si estendeva evidentemente anche alla religione e alla Chiesa; dall’altro lato dava la spinta verso un nuovo protagonismo democratico della società, dove l’individuo non era più solo e passivo in attesa sempre del traino di uno Stato perennemente attivo. Ma, in tale insorgenza, l’individuo veniva a sentirsi parte attiva, in grado di creare; animatore di un ethos sociale che era, nella pratica, l’ossatura fondamentale dello Stato democratico. Il quale, come sappiamo, necessita di questa tipologia attiva di individui/persone in grado di promuovere associazioni, quali espressione di esigenze e cultura etiche che uniscano e responsabilizzino.
Il lascito del documento del 1931 è la federalizzazione della società. Si è trattato di un passaggio storico fondamentale per la costruzione europea dopo la sconfitta dei totalitarismi.
Seguendo l’aspirazione della sussidiarietà, si può affermare che l’Europa non nacque né socialista, né liberale, né statalista; ma nacque ispirata – se così si può dire – a una terza via di cristianesimo sociale con una visione europea. Questa terza via era nelle menti degli statisti che avevano progettato l’Unione Europea intesa come condizione per il consolidamento della democrazia e anche aiuto reciproco o cooperazione. Per i fondatori, e nella concezione europeista che essi esprimevano, la religione non era più concepita nel solo esercizio della formazione dei fedeli e nella difesa di valori e pratiche tradizionali e, in primis, delle chiese; essi la pensavano impegnata a svolgere un ruolo nuovo, di formazione dei cittadini democratici. Quindi con una funzione – pensiamo alla Democrazia Cristiana non solo in Italia ma anche in Germania – di contributo centrale alla costruzione dello Stato secolare arricchito dall’etica solidaristica che, in questo caso, è l’etica sussidiaria.
Il collante dell’UE
E allora guardiamo all’Unione Europea – in effetti l’UE nasce all’interno e con questo scopo – come principio dinamico dove la sussidiarietà diventa il collante dell’Unione che riesce, sorretta da questo pilastro, a evitare di diventare a sua volta uno Stato, a riproporre a livello continentale il modello nazionale di Stato sovrano centralizzato. Invece essa mette in moto regole e procedure per organizzare le istituzioni della società civile interna agli Stati europei, per operare cioè con il supporto delle amministrazioni sia regionali e sia locali. Qui si vede in azione la federalizzazione, ovvero una società non solo organizzatrice di interessi ma anche governo delle esigenze, con un ruolo rispetto allo Stato che non è comprimario. A guardia di questo principio è stata costruita una corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) con lo scopo di portare al centro della comunità l’idea dell’uguaglianza dei diritti senza, tuttavia, imporre una uniformità statal-sociale.
Abbiamo così un’Europa a due gambe; quella della sussidiarietà sociale amministrativa e quella della Corte di Giustizia per la difesa dei diritti. Ciò risponde a un’esigenza precisa; in quanto le associazioni che generano, per vicinanza e per solidarietà di sussidio, interventi di aiuto, di sostegno e di distribuzione dei servizi, spesso non tengono conto dell’uguaglianza dei diritti che tutte le persone hanno, indipendentemente dalla loro religione, dalla loro appartenenza o preferenza sessuale, dalla loro etnia eccetera.
Quindi è necessario integrare la sussidiarietà con il senso unitario del diritto. Questa è l’Unione Europea che ci unisce nei diritti e nelle solidarietà locali. Viaggia su due binari che necessariamente si intersecano: il binario della specificità orizzontale legata alle associazioni e alle amministrazioni locali della società civile e il binario della uniformità nel diritto. Sono questi i principi che hanno ispirato la carta europea dell’autogoverno locale di Strasburgo nel 1985, che ha acquistato valore di parametro semi-costituzionale, in quanto stabiliva il tessuto europeo dell’autogoverno locale regolando i poteri di una parte assai rilevante di Stati membri attraverso l’attività responsabile delle amministrazioni territoriali.
Tali principi ritornarono poi nel Trattato di Maastricht (TUE), 1992, dove la solidarietà designa l’architrave dell’Unione e pone limiti ai suoi poteri. Riporto un passaggio (articolo 3B): “La comunità agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite e degli obiettivi che le sono assegnati dal presente trattato. Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene secondo il principio della sussidiarietà soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario. L’azione della Comunità non va al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del presente trattato”. La sussidiarietà, dunque, è dentro le norme di limitazione del potere di intervento dell’Unione Europea.
Volano di stabilità per le democrazie
Oggi ci troviamo in un momento cruciale perché il ruolo della sussidiarietà acquista un valore ancora più importante di fronte al globalismo finanziario. Assistiamo a un fenomeno che potrebbe andare proprio nella direzione sussidiaria; vi è, infatti, una reale restrizione di potere degli Stati sovrani, intendiamoci bene, non di tutti i poteri, non certamente del potere coercitivo che anzi si rafforza a fronte dell’indebolimento dello Stato sociale. Noi siamo più vicini al liberismo di fine Ottocento, quello pensato e celebrato da Herbert Spencer come una forma di selezione delle forze migliori o più funzionali. Ma si tratta di una vicinanza che avviene dopo una lunga esperienza di Stato sociale, un’esperienza che non viene abbandonata completamente ma semmai trasformata; il pubblico, da agenzia diretta di distribuzione di servizi, si fa agente di regolamentazione e di monitoraggio, di protezione dei diritti. Abbiamo cioè uno Stato che riconosce il bisogno della società organizzata, che non è la semplice società civile come società economica, ma una società attrezzata a rispondere ai bisogni percepiti dalle persone, prossima alle necessità delle persone, con un’attenzione alla dignità, e che non risolve le questioni di ingiustizia con l’umiliante carità; al contrario, la società di prossimità si radica sulla diretta azione e diretta partecipazione degli attori sociali, operativi nel mondo della sanità, dell’assistenza e dell’accoglienza, attività sempre più importante.
Questo mondo florido che si è creato grazie all’Unione Europea è stato un volano per la distribuzione della dimensione sussidiaria in quasi tutti i Paesi d’Europa. E ha reso il fenomeno di restrizione dello Stato una opportunità di arricchimento ed espansione della sussidiarietà. Perciò, grazie a una serie fortunata di coincidenze tra le quali la nascita di un’Unione Europea non come sovranità popolare centralizzata ma come potere sociale sussidiario, i Paesi del Vecchio Continente si trovano in una situazione socialmente più equa e migliore di quella degli Stati Uniti. Infatti in Europa abbiamo una società non solo ricca di capitali privati – come gli Stati Uniti – ma ricca anche di un tessuto sociale di solidarietà e di aiuto – diversamente dagli Stati Uniti. In un mondo globalizzato e finanziarizzato, dalla federazione sociale può venire un sostegno importante alla difesa delle democrazie.
Per il percorso che abbiamo provato a tracciare, la complessità dello scenario odierno ci porta a ritenere che la società civile organizzata per vie sussidiarie abbia una grande opportunità di consolidare un tessuto di solidarietà tra i cittadini e preveda anche la ricerca di sostegno privato integrato a quello pubblico per condurre in porto alcuni specifici progetti sociali. Questo tessuto, oggi, è alla base della tenuta delle nostre democrazie. La sfida delle democrazie che viene dai Paesi asiatici non è soltanto una sfida di tipo economico, ma anche ideologica in quanto alimenta l’idea che la legittimità politica debba essere misurata sul risultato, sull’outcome, indipendentemente dai principi di dignità individuale e libertà. E lo Stato dirigistico, volente o nolente, ci impone la logica dell’outcome. All’opposto, la sussidiarietà ha la capacità di cogliere la vera natura dei problemi e di generare le condizioni per la loro risoluzione in larga misura sostenibili per tutti e mai indifferenti al valore delle singole persone e alla loro dignità. Quindi, responsabilizzazione della cittadinanza in uno spirito di condivisione in Stati più leggeri ma ben presenti col diritto.
La sussidiarietà, nata per opporsi alla statolatria degli anni Trenta, oggi ha una straordinaria opportunità, quella di pensare e progettare – e dunque costruire – reti sociali di sostegno e di governo dei bisogni secondo una cultura che è distante da una visione centralistica statuale alla maniera, appunto, degli autoritarismi. Con una capacità di intervento sociale laddove si evidenzia il bisogno e laddove le azioni degli individui da sole non sono sufficienti. Tale capacità di monitorare l’azione sociale degli individui e intervenire e operare perché la loro debolezza strutturale diventi motivo di ricchezza attraverso le forme associative, oggi è un volano di stabilità delle nostre democrazie e di intervento sociale in una modalità nuova, che raccoglie l’ispirazione di giustizia degli anni Settanta senza passare attraverso l’autorità centralistica dello Stato.
Come diceva Maritain, la sussidiarietà ha, in una qualche misura, le potenzialità e le caratteristiche per strutturare e costruire le democrazie muovendosi da dentro la società; attraverso le associazioni che la animano. Per poter arrivare oltre lo Stato. Ora, andare oltre lo Stato significa due cose: oltre i limiti che lo Stato nazionale mostra con grande evidenza, e oltre la stessa dimensione continentale europea.
L’intervento è stato pronunciato nell’ambito dell’incontro “Sussidiarietà: il futuro si riapre”, organizzato dalla Fondazione per la Sussidiarietà a Mirasole, 11 dicembre 2021.