Trimestrale di cultura civile

Welfare e società: superare la crisi senza sacrificare nessuno

di Giuliano Pisapia e Giorgio Vittadini / Sindaco di Milano; Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà

Il numero invernale di Atlantide riprende e approfondisce i contenuti del libro La sfida del cambiamento. 5 Superare la crisi senza sacrificare nessuno (BUR Rizzoli, 2012), curato da Lorenza Violini e Giorgio Vittadini. L’ipotesi di fondo è quella di un “welfare sussidiario” che affermi la priorità delle iniziative nate dal basso e rimetta al centro della vita associata la persona e quei soggetti sociali per troppo tempo considerati marginali rispetto all’iniziativa statale intesa come motore esclusivo della società, che pretendeva di regolare la vita della gente dalla culla alla tomba. La crisi economico-finanziaria ha messo in discussione il welfare state in tutti i Paesi occidentali, come emergenza di una ben più profonda crisi culturale: non solo le istituzioni governative vengono progressivamente meno, ma anche i presupposti ideologici che per decenni ne hanno fatto la fortuna. Le personalità che hanno collaborato alla realizzazione di questo numero di Atlantide riconoscono che la crisi globale che ha messo in ginocchio intere nazioni può rappresentare una sfida per il cambiamento, se intesa come occasione favorevole – aldilà delle recriminazioni e dei facili lamenti – per mobilitare le energie umane, culturali, economiche e politiche migliori, in vista di un’opera comune di ripensamento delle pratiche di Riportiamo di seguito la sintesi del dialogo svoltosi il 6 novembre 2012 presso la sala Sant’Antonio durante 7 l’incontro organizzato dal Centro Culturale di Milano e moderato da Sergio Luciano, editorialista di Panorama Sergio Luciano. Un grazie sentito da parte mia, sono molto contento di essere qui. Già il fatto di avere Giorgio Vittadini e Giuliano Pisapia insieme a parlare di questi argomenti definisce questo tavolo un tavolo di buona volontà, un concetto mai abbastanza ricordato, la buona volontà come benzina fondamentale per fare delle cose in comune, insieme. L’altra cosa bella è che ci sono tantissimi giovani, studenti; al di là di tutto, l’applauso che ha accolto il Sindaco vuol dire che se l’è meritato e quindi ci fa piacere. Basta poco per accorgersi di quante cose il volontariato già fa per il Comune, nel senso di comunità. Allora forse la prima domanda, al di fuori degli spunti che poi seguiremo, da porre al sindaco Pisapia è: acquisito con chiarezza quante cose utili fa il volontariato per il Comune, cosa può fare il Comune per il volontariato, visto che è abbastanza chiaro che non è che possa più dare molti soldi. Parliamo di questo stasera, di Welfare sussidiario, cioè come far andare insieme meglio il pubblico con questo vasto mondo che non è mercato ma umanità, solidarietà, per arrivare all’obiettivo finale del nostro titolo e del titolo del libro curato da Vittadini: La sfida del cambiamento. Superare la crisi senza sacrificare nessuno. È un rebus? Giuliano Pisapia. Siamo qui a confrontarci, a dialogare e soprattutto a cercare di capire le ragioni degli altri per andare avanti insieme. Di questo sono convinto: da solo nessuno ce la fa. In questo periodo difficile di crisi le sfide si vincono se si combatte insieme, se si creano sinergie. E per crearle bisogna confrontarsi e dialogare, manifestare e rivendicare le diversità, ma poi muoversi insieme per passare dalle parole ai fatti. Si è parlato di buona volontà, documentata da tante esperienze che possono arrivare a risultati eccellenti, ma io parlerei anche di buona politica. Intendendo per politica non il confronto tra partiti, ma lavorare per la polis, cioè quel civismo che è lavoro e impegno per l’interesse comune, per il bene comune che è il senso della collettività e il senso della comunità. Quando si dice: superare la crisi senza sacrificare nessuno, io credo che sia un grande sogno. Però bisogna affrontarla con realismo, qualche sacrificio lo dobbiamo fare e chiedere. Il mio pensiero rispetto al dibattito su welfare e società è questo: si può superare la crisi con equità nei confronti di tutti se, anche nel momento in cui si debbono fare sacrifici, si ha come dirittura il bene comune e l’equità. Solo con l’equità si riesce a ristabilire una situazione di giustizia che troppo spesso non c’è. Il Comune cosa può fare? Quest’anno abbiamo tagli per 380.000.000 euro. L’ente più vicino ai cittadini ha un livello di tagli di questa ampiezza. Siamo in una situazione, e lo dico senza piangere e senza guardare al passato, in cui bisogna decidere dove indirizzare gli 80.000.000 euro certi di investimenti che possiamo fare ancora quest’anno. Questo è difficile, ma diventa meno difficile se la scelta è condivisa, se è comunicata e quindi compresa, e soprattutto se arrivano alternative che siano praticabili, che non siano sogni. Sono diventato molto concreto, a fare il Sindaco, a livello di slancio per dare delle soluzioni. Abbiamo scoperto che il Comune di Milano ha tantissimi spazi liberi e completamente abbandonati, alcuni in situazioni disastrate altri ancora bellissimi, e con poco si possono ristrutturare e mettere a disposizione della città. Abbiamo deciso e già iniziamo a metterli a disposizione di chi si offre: si va dall’educazione all’affido familiare, a tutto ciò che il volontariato è capace di dare, l’associazionismo, le onlus, il terzo settore, che sta diventando il primo settore. Abbiamo, malgrado le difficoltà, costituito un fondo che sembra molto quello che il cardinale Tettamanzi ha iniziato e che il cardinale Scola ha proseguito. Si tratta di un fondo welfare, al quale hanno contribuito il Comune, i sindacati e altre forze sociali, e che stiamo cercando di utilizzare non solo per far arrivare alla fine del mese chi non ci riesce, ma anche e soprattutto per dare contributi a quei progetti di giovani e meno giovani che possano creare sviluppo, che possano essere un volano per lo sviluppo della città. Stiamo impegnandoci in una serie di iniziative che uniscono il pubblico, il privato, il volontariato. Sono sempre di più i progetti che uniscono volontariato, associazionismo, banche, istituti di credito o imprese, con la presenza dell’istituzione che fa da garante per l’unità. Questo credo che sia il grande passo avanti che può creare sviluppo e soprattutto salvare la nostra città e, credo, anche il Paese. Giorgio Vittadini. Anche io, come il Sindaco, non voglio ridurre il discorso al tema volontariato-Stato, perché quello di cui stiamo parlando oggi è un argomento più largo: un cambiamento di concezione che arriva anche alla politica, ma è generale, contro la crisi ideale che viviamo. Parto da come vedo io Milano. Sono nato nella periferia Baggio-Forze Armate, accanto alla Durban’s, che non c’è più. Poi sono andato ad abitare verso viale Zara e a lavorare in Bicocca, dove c’era la Breda, che non c’è più. Adesso abito a Lambrate, dove c’era l’Innocenti, che non c’è più. In centro, l’Alemagna non c’è più e non c’è più l’Alfa Romeo. Avendo perso migliaia di occupati nelle grandi imprese, di cui rimangono i ruderi industriali, dovremmo essere una città del terzo mondo. Come mai, invece, nonostante la crisi, non lo siamo? Perché questa città ha una continua capacità di rigenerarsi dal basso. C’è qualcosa in atto che sta avvenendo; chiamatela moda, design, biotec, ma anche iniziative sociali che dobbiamo riconoscere perché sono ciò che documenta la vitalità di Milano. Nel nostro ultimo Rapporto sulla Sussidiarietà (“Sussidiarietà e… città abitabile”) abbiamo studiato alcune realtà sociali quali, Pedibus, Pompeo Leoni, Bosco in città, Villaggio Barona, Portofranco: sono solo alcuni dei tanti esempi sul territorio milanese che rispondono dal basso a bisogni sociali. Non si tratta di volontariato, è la documentazione della capacità creativa a costruttiva dei cittadini e delle loro aggregazioni, unico possibile attore di una rivoluzione economico-sociale, che io cerco di descrivere brevemente in tre punti. Siamo andati avanti per anni, per secoli, leggendo il capitalismo secondo una visione protestante e lo Stato in una visione hobbesiana, negativa, dell’uomo, secondo cui l’uomo è fondamentalmente dominato da impulsi egoistici che devono essere tenuti sotto controllo dallo Stato-Leviatano, impulsi che però, attraverso il mito della “mano invisibile” del mercato, portano al benessere collettivo. Solo l’ultima grave crisi finanziaria è riuscita finalmente a levare agli editorialisti di alcuni giornali l’idea che l’egoismo dei singoli possa portare “magicamente” al benessere collettivo. Non porta al benessere collettivo, porta al disastro! E la mano invisibile del mercato, semplicemente, non esiste! D’altra parte, insieme alla crisi del mercato stiamo assistendo da tempo alla crisi del welfare state, divenuto inefficace, inefficiente e iniquo in una società con bisogni sempre più complessi e differenziati. Crisi, che si è ora aggravata a causa del fatto che non ci sono più soldi, e a causa di una mentalità statalista che ha squalificato a priori le realtà del privato sociale come soggetti portatori di bene comune nell’erogazione dei servizi di welfare. Lo Stato sociale, così come finora concepito, è destinato a sparire perché le risorse sono sempre più scarse. È comunque un’idea di Stato che, secondo me, va stretta al DNA italiano, perché storicamente la struttura sociale del nostro Paese è stata costituita grazie all’iniziativa delle realtà popolari e alla loro capacità di convergere per il bene comune; anche la nostra Costituzione nasce da questa convergenza. Come ripeteva spesso don Giussani e come si ritrova anche nella tradizione socialista, l’uomo è relazionale, è costituito dal desiderio di verità, giustizia, bellezza che gli fa percepire il bene degli altri come parte del proprio. Anche nella tradizione liberale, del resto, è presente un’idea di uomo che ha ideali positivi, costruttivi, non semplicemente utilitaristici, ma tesi al bene della comunità in cui vive. Allora, questa dimensione dell’uomo è ciò che sta dietro a quello che nasce di continuo a Milano – è un fatto – e che va riconosciuto ed educato. Questo ideale pluralista, cattolico, socialista, comunista, liberale, questo nesso tra il cuore e la realtà ha un valore sociale ed economico. E, lo dico esplicitamente io, in un momento in cui la realtà a cui appartengo è messa sotto accusa, in difficoltà. Tutti hanno bisogno di essere educati in luoghi – e faccio riferimento alla lettera di don Carrón su La Repubblica di qualche mese fa – che non difendono corporativamente i loro appartenenti, ma sono in grado di correggerli, perché l’appartenenza educa a una responsabilità personale, non la copre. E quindi è in grado di riconoscere gli errori e rilanciare una posizione ideale. Mentre, in caso contrario, l’errore viene sanzionato da uno Stato poliziesco, dalla polizia dei giornali o di altro. Non esistono responsabilità collettive, esistono responsabilità personali che possono essere sostenute in realtà sociali che spingono a impegnarsi, a costruire, a mettersi in discussione, a non fermarsi, a emendare gli errori. Questa rivoluzione sociale introduce il secondo aspetto, che è l’idea di opera, di esempio e di testimonianza in cui una positività diventa fattore di costruzione non solo per sé. Perché io non difendo a priori il volontariato o, se vogliamo, i corpi intermedi. Ci può essere una realtà sociale che diventa corporativa a danno di altre realtà e del bene comune. Allora, da questo punto di vista, non è bene a priori la realtà sociale e male il Comune o lo Stato. Il valore si vede nel momento in cui una educazione porta a opere ed esempi che servono alla collettività, al bene di tutti. Che nascono da un’appartenenza ideale, da una responsabilità personale, da una correzione, da una moralità, e che diventano esempi nell’economia e nella società. Il terzo aspetto riguarda il rapporto col pubblico. Ora, io rifiuto la contrapposizione settecentesca, ottocentesca e novecentesca tra Stato e privato. Perché tenere questa contrapposizione di maniera vuol dire difendere l’idea per cui, a priori, l’equità è garantita solo dal pubblico (che poi non riuscirebbe a farlo perché non ha soldi), o sognare illusoriamente che sia il privato a farlo attraverso meccanismi di mercato. Avete mai visto un privato a fini di lucro, che deve remunerare gli azionisti, entrare nella formazione, nella disabilità, nella cura delle malattie rare, nell’aiuto alle famiglie, nell’affido? Per questo dobbiamo lavorare per accrescere un partenariato tra pubblico e privato, una collaborazione che costruisca strumenti nuovi, che superi la contrapposizione sterile tra Stato e privato, ancora in voga sui giornali e che ancora molta politica persegue. Questo significa avere il coraggio di andare a cercare esempi virtuosi ovunque nascano. Per esempio, dalla Regione Lombardia sono venute fuori moltissime opportunità che bisogna conservare. Una struttura come il Comune, che ha una capacità di intervento su questi servizi come nessuno, deve saper sfruttare queste esperienze. Tra il Comune di Milano e i cittadini sono in atto iniziative assolutamente interessanti. Noi dobbiamo fare delle sperimentazioni sociali, trovando anche le formule giuridiche ed amministrative per favorire questo cambiamento. E, sono d’accordo col Sindaco, dobbiamo andare alla ricerca di esempi in una prospettiva di pluralismo, non è possibile farlo da soli. Perché il vero nemico di questa situazione è la mancanza di iniziative mosse da ragioni ideali di gran parte della popolazione, è l’individualismo, è il non sentirsi parte della collettività. Allora noi dobbiamo trovare delle formule che valorizzino questa interazione tra pubblico, privato e privato sociale, immaginando forme nuove di collaborazione. Questi tre punti significano una rivoluzione economica, sociale e personale. Il vero cambiamento sociale nasce infatti dal cambiamento di sé, da un’esperienza più vera di se stessi, resa possibile da grandi ideali, come quelli che hanno segnato la storia del nostro Paese. Pisapia. L’esperienza mi ha dimostrato che, se non si lavora insieme tra pubblico e privato, tra soggetti diversi che uniscono le forze, talvolta si riesce a fare la carità, ma non si riesce a risolvere il problema. Io credo che se non si parlano mondi diversi, se non si parlano realtà diverse, realtà che non hanno un ruolo istituzionale con soggetti che hanno un ruolo istituzionale, con soggetti che hanno possibilità economiche, se non si lavora insieme per poi fare scelte che scontentano sempre qualcuno, in questa fase storica non andiamo avanti. Noi non cresciamo e soprattutto noi non facciamo crescere il Paese. È possibile, ed è doveroso, confrontarsi, e poi però la decisione finale non può che essere quella delle istituzioni, perché per quanto il terzo settore sia fondamentale, se non è messo in rete riesce a risolvere piccoli problemi ma non è conosciuto, non si riescono a risolvere grandi problemi. Chi ha un ruolo importante come amministratore deve cercare, con la compatibilità economica, di risolvere anche i grandi problemi. Il cammino non può che essere comune, i confronti e gli scontri non possono non essere necessari e indispensabili e alla fine ognuno deve assumersi le proprie responsabilità col coraggio e con la forza anche di cambiare idea, di fare marcia indietro qualora si rendesse conto che la linea che ha seguito non era il percorso adatto all’obiettivo che ha tentato di raggiungere. Io lo vivo ogni giorno – vedo l’amico Forte –, in consiglio comunale ci scateniamo molto, però credo che mi dia atto che ascolto molto. Incontri come questo sono importanti perché purtroppo non ci si ascolta, e si pensa troppo spesso di avere tutte le ragioni, mentre spesso le ragioni possono essere non dico a metà, ma a un quarto o a tre quarti. La seconda riflessione mi viene a partire dal passato, da quello che diceva il prof. Vittadini rispetto alla necessità che non ci sia contrapposizione tra Stato e welfare di base, cosa che comporta il fatto che ci debba essere sempre un confronto, ma anche che oggi il welfare determinante sia quello dal basso. Su questo ho una visione diversa: secondo me tutto quello che voi dite è valido, ma è anche vero che non dobbiamo demonizzare né l’uno né l’altro. Se parliamo dell’Italia questo discorso è assolutamente giusto; se parliamo di altri Paesi, così non è; se parliamo di Milano, è ancora più condiviso e condivisibile perché a Milano abbiamo la capitale del volontariato, perché abbiamo avuto, indipendentemente dai periodi storici, sempre un’amministrazione che ha voluto essere capace di dialogare, riformista (poi c’è chi ci è riuscito e chi non ci è riuscito, ma non mi interessa in questo momento e potrei essere io quello che non ci è riuscito!). C’è soprattutto una strategia di gruppi, non di corporazioni, che lavorano insieme, che partecipano a un percorso collettivo. La mia idea è che questa compenetrazione, questa convergenza in una città come Milano sicuramente funziona, ed è doverosa, e ce ne siamo resi conto quando qualcuno non l’ha voluta. È necessaria anche a livello di Paese, ma lo Stato conserva un ruolo fondamentale e quindi non può essere in contrapposizione, soprattutto in Italia, per la divaricazione che c’è tra Nord e Sud, per una situazione che da tutti i punti di vista vede un Sud più povero, più indietro e più lento rispetto a certi processi, e un Nord più avanzato. Allora il ruolo dello Stato è fondamentale, e credo che anche quelle modifiche costituzionali che hanno riconosciuto la sussidiarietà, ma che mantengono in capo allo Stato un ruolo di equità, rispecchino una situazione di sinergie che è necessario salvaguardare. Ci sono Paesi, soprattutto nel Nord Europa, dove invece, se non ci fosse lo Stato, se non ci fosse il centro, se non ci fosse un’istituzione nazionale, probabilmente ci sarebbe un welfare molto più debole; dall’altra parte, abbiamo Paesi poveri in cui purtroppo lo Stato è troppo spesso egoista, e se non c’è la capacità di dare parola, spazio e risposte ai bisogni di chi non ha un ruolo istituzionale, avremo una situazione di fame, povertà e guerra molto maggiore. Io credo che trovare la distinzione e la ricchezza delle specificità italiane, in particolare della specificità milanese, sia qualcosa che dobbiamo e possiamo dirci; ci fa onore e per questo io sono orgoglioso di essere il Sindaco di Milano. Vittadini. Chi vince le elezioni ha la responsabilità, di fronte alla comunità, di organizzare il sistema. Vorrei discutere proprio di questo aspetto e permettermi una provocazione, che faccio spesso sull’idea di cosa debba fare uno Stato o un’amministrazione: innanzitutto non deve organizzare un servizio prescindendo da ciò che già c’è di efficace in atto. Come far sì che un’amministrazione tenga conto di quel che c’è? Primo: la libertà di scelta dell’utente. Posso non parlare del voucher, che è discusso, ma parlo della “dote” che ha inventato Blair e che è stata utilizzata dalla Regione Lombardia nel settore della formazione professionale con ottimi risultati. Invece di dare i soldi a pioggia prescindendo dalla qualità del servizio, una volta accreditati gli enti erogatori, viene incentivata la scelta dei cittadini che valuteranno dove è meglio formarsi. La gente può scegliere: certo, è l’amministrazione che alla fine dà il quadro, ma è diverso un quadro in cui è tutto verticistico e uno in cui valorizza questa libertà. Non va bene la “dote”? Usiamo metodi come la detrazione fiscale o altro. Non va bene questo? Mettiamoci a un tavolo e diciamo, ad esempio, che gli asili nido li possono fare anche le famiglie e non devono necessariamente essere comunali. Oppure – faccio una critica al governo di destra in questo caso –, quando faccio una social card destinata ai poveri, non posso non rendermi conto che non sono in grado di raggiungerli, ma posso sapere che ci sono reti come la Caritas o il Banco Alimentare che hanno la possibilità di entrare in contatto con loro. È “più comune” un Comune, un governo che riesce a valorizzare con forme amministrative nuove le realtà che già operano efficacemente. Questa, secondo me, è la sfida di oggi: trovare nuovi strumenti con cui l’amministrazione pubblica possa valorizzare tutte quelle realtà nate dalla società, non avendo paura della persona che sceglie, che valorizza, che costruisce qualcosa. Perché questo è ciò può permettere l’equità. Anche qui secondo me bisogna superare l’idea che il privato fa un po’ di bene, ma l’equità alla fine la fa il Comune o lo Stato. Certo, ci deve essere un punto ultimo, perché in un regime democratico chi vince le elezioni deve fissare le regole, ma può farlo con intelligenza o meno, non valorizzando e quindi impedendo di maturare la capacità di iniziativa delle persone. Dobbiamo andare oltre certe stantie forme di pensiero: certe soluzioni possono essere nate anche da un governo di centro-destra, altre da uno di centro-sinistra, e dobbiamo valorizzarle. Pensiamo a tutta la valorizzazione possibile delle famiglie, qui non parliamo del Comune o dello Stato. La famiglia può essere considerata – come in Italia – un peso sociale, oppure – come in Francia, che è un Paese statalista – essere trattata come un fattore fondamentale, quale è, dello sviluppo, del consumo interno, della formazione del capitale umano, della capacità di assistere i suoi membri in difficoltà, e quindi essere un interlocutore diretto di detrazioni, di deduzioni e così via. Pensate, in Francia comanda lo statalismo e lo Stato è centrale, ma decide di valorizzare almeno questa realtà di base. Questa secondo me è la rivoluzione necessaria adesso, ed è interessante il dialogo con persone aperte come il Sindaco, perché è importante non stare ognuno nel proprio campo e parlare solo con i propri amici, ma confrontarsi continuamente a 360° su dove bisogna andare, tenendo conto che mancano i soldi, per cui dobbiamo trovare delle forme che siamo le più efficienti ed efficaci possibili. Io mi occupo di valutazione, la mia concezione è questa: un Comune deve andare a vedere chi è più efficiente, più efficace e dà più soddisfazione all’utente. Questo può essere un privato sociale o il Comune stesso. E questa è una decisa inversione di rotta rispetto al presente perché implica il fatto che una forma giuridica non è di per sé superiore all’altra (il pubblico superiore al privato), ma lo è il risultato, il raggiungimento del bene pubblico. Facciamo un esempio in sanità: è utile avere un sistema sanitario misto, decidendo però che le aziende ospedaliere offrano anche un servizio di Pronto Soccorso. Cioè, l’obiettivo deve essere fissato da chi governa il sistema (l’ente pubblico), che decide anche quale struttura accreditare in base alla qualità certificata e a criteri di utilità pubblica. Pisapia. Questo forse è il punto dove c’è una differenza. Mi sembra che la condivisione è totale, poi è naturale se appena si ha un buon senso. Ho capito il ragionamento, ma non convince poi nella pratica quotidiana – mentre mi convince la detrazione fiscale – il problema della libertà di scelta fatta dall’utente. È una cosa che in teoria condivido pienamente, uno dei punti che voi toccate nel libro. Però un conto è la teoria, è un po’ come il principio di eguaglianza. Il capitolo La parabola del welfare, dalla Costituzione alla riscoperta della sussidiarietà di Lorenza Violini, ricorda che la Costituzione – nell’art. 3, comma 2 – «non si limita a garantire l’eguale trattamento giuridico ma si dispone a creare condizioni materiali tali da rendere i cittadini effettivamente eguali fornendo loro beni e servizi volti a rendere dignitosa la loro vita». Questo è il punto. Lei dice che la Costituzione è quantomeno equivoca – che sia equivoca è perché la Costituzione dice questa cosa, cioè che la Costituzione si impegna a creare le condizioni materiali e di eguaglianza (eguaglianza formale ed eguaglianza sostanziale). La Costituzione dice un’altra cosa: la Costituzione dice che «è compito della Repubblica rimuovere tutti quegli ostacoli che impediscono la piena eguaglianza tra i cittadini». Questa secondo me è una cosa praticabile: non è forma, è sostanza. Qualsiasi ruolo istituzionale comporta che tu non puoi fare diventare tutti uguali, anche perché è impossibile, ma puoi e devi eliminare, questo dice la Costituzione, gli ostacoli che rendono impossibile che il principio di eguaglianza sia perseguibile. E allora io ti chiedo: la libertà di scelta dell’utente, cosa significa? Perché non puoi, purtroppo, rendere possibile che la libertà di scelta sia da parte di tutti, perché a un certo punto ci sono dei limiti, ad esempio delle disponibilità, e allora prevale chi arriva per primo, prevale chi ha più bisogno, prevale chi è più furbo, prevale chi ha l’amico che lo raccomanda. Io credo che su questo una riflessione e, probabilmente al momento, anche una differenza c’è, esiste e vale la pena discuterne. Io penso invece che solo un’istituzione possa essere garante, attraverso le autorità, i localismi che sono o dovrebbero essere seri o che dovremmo auspicare che siano al di sopra delle parti – le “mele marce” ci sono sempre –, che questi principi, cioè che ognuno possa avere sulla base delle proprie necessità, diventino reali. E questo in ogni caso: è proprio un principio, credo, anche cristiano. Se noi diciamo che uno sceglie a chi rivolgersi, poi, vista la limitatezza delle possibilità di dare una risposta, la scelta come avviene? Purtroppo abbiamo visto che in un passato recente è avvenuto (non per chi arrivava prima, che in fin dei conti è anche un principio), non per chi aveva più bisogno (che è la cosa che io condivido di più), ma sulla base della spintarella. Mi ha sconvolto la recente audizione del direttore generale dell’ALER, l’istituto che gestisce le case popolari del Comune ed è proprietaria di fatto delle case popolari della Regione: «Certe volte le case vengono assegnate sulla base delle referenze, delle raccomandazioni». Questo è uscito su tutti i giornali. E allora in quel caso chi è l’organo che può, se lavora bene, dare la garanzia che non avvenga discriminazione, che non avvengano favoritismi? Quindi forse bisogna trovare una terza via, quella che può risolvere il problema ed evitare i danni. Vittadini. Innanzitutto ritengo che là dove esistono storture esse debbano essere perseguite, senza necessariamente buttare via il bambino con l’acqua sporca. E il bambino in questo caso è un sistema in cui la responsabilità e la libertà dei cittadini venga valorizzata al massimo perché l’iniziativa di ognuno è un bene per tutti. Poi ovviamente c’è settore e settore e ognuno ha le sue regole, ma perché, ad esempio, dovrebbe essere sbagliato, se prima ho accreditato gli ospedali, che un paziente possa scegliere il primario che ritiene migliore, visto che è in gioco la sua salute, se questo non porta a un aumento della spesa per lo Stato? Perché non si dovrebbe potere esercitare il diritto di scelta dell’asilo nido, ad esempio realizzato da una cooperativa accreditata (perché io sono d’accordo che di fronte a chiunque dev’esserci prima un accreditamento pubblico) se costa meno, se è più efficace, se permette un’esperienza educativa migliore? La mia domanda riguarda questioni di fatto: perché non si dovrebbe usufruire della Caritas o del Banco Alimentare invece dell’assistenza pubblica? Io non dico che non ci debba essere assistenza pubblica, non sono per l’abolizione dello Stato, ma perché si limiti alla sua funzione di regolatore della cosa pubblica che non è necessariamente ciò che proviene dall’ente statale o locale. Quando parlo di partenariato intendo dire che ci dev’essere il pubblico, ma che ci possono essere anche, a parità di efficienza, efficacia e customer satisfaction, delle realtà che nascono dal basso e che vengono riconosciute nella loro funzione pubblica. E mi rifaccio alla sentenza – sempre parlando di questioni costituzionali – che ha riguardato le fondazioni bancarie, quando si cercò di renderle completamente pubbliche. La Corte costituzionale disse: «Ci possono essere delle realtà di diritto privato che hanno un valore pubblico ». Io mi batto per questa idea, che poi si può anche ridurre all’esistenza dello stato di fatto: se anche fosse solo il 10 per cento della popolazione, che in questo modo esercita una possibilità che aumenta la qualità complessiva del servizio che viene offerto in una città, perché questo 10 per cento non può esserci, insieme al 90 per cento che invece usufruisce di buoni servizi pubblici? Ripeto: non lo dico da estremista, io non sono dell’idea “privato contro lo Stato”, ma sono dell’idea “e anche”. E anche Portofranco, e anche la realtà Comin, e anche don Colmegna, e anche, e anche... a parità di condizioni. Certo, il Comune non deve spendere di più complessivamente, ma la qualità e la valutazione sono strumenti attraverso cui è possibile integrare queste due dimensioni. Questo dibattito, che mette in luce, e giustamente, delle differenze, è un dibattito che secondo me bisognerebbe poter fare anche tra operatori sociali, perché probabilmente questa terza via e queste soluzioni possono nascere anche da un dialogo; purtroppo il dialogo è sempre chiuso in questioni elettorali, all’ultimo momento, con stereotipi. Ma come si fanno sperimentazioni su farmaci, anche ciò di cui sto parlando ha bisogno di verifiche empiriche, anche perché la realtà cambia continuamente. Il problema, ultimamente, riguarda il soggetto. In termini generali, io sono contro qualsiasi idea meccanicistica di sviluppo e di futuro. Ciò che davvero alla fine può fare la differenza è una coscienza diversa di sé in azione in cui sia tenuto presente il nesso tra ideali per l’uomo e ciò che si fa. Se questo avviene (e non è scontato), si potrà costruire un welfare diverso, si può costruire equità. Questo sottolinea che ultimamente lo sviluppo dipende da un fattore umano incomprimibile. Dipende da noi, ma non nel senso esortativo-volontaristico: dipende dal fatto che il soggetto umano sia rispettato fino in fondo, nei suoi desideri, nella sua capacità di iniziativa, nel suo rapporto con la pluralità della società moderna. Questo è ciò che può permettere un cambiamento, una continua rivoluzione – una volta Giussani parlò del “movimento nel movimento” –, un cambiamento continuo, endogeno, come fattore di sviluppo della società. Questo, secondo me, è il fattore determinante anche nel welfare: l’idea di equità deve avere in sé – se ha nello Stato o nell’Ente pubblico il suo garante – un’idea di uomo in cui il suo desiderio più costituivo sia tenuto sempre presente. Non per niente – mi permetto un ricordo – don Giussani, figlio di una cattolica e di un socialista, amava le canzoni di inizio secolo del movimento operario, che parlavano di uomini con un potente desiderio di giustizia, di sviluppo, di progresso, di equità, di pace. Senza il ritorno di questo sentimento diffuso, tutto andrà giù.