Il Paese più popoloso al mondo è destinato a giocare di qui ai prossimi decenni un ruolo importante nella partita chiave che porterà a una forma di nuova normalizzazione. Dopo le inevitabili tensioni tra i blocchi che si stanno formando. Ecco perché richiama e reclama grande attenzione. Parliamo di una democrazia che adotta fondamentali carte occidentali, ma punta ad avere e a promuovere un suo protagonismo. Dopo la crisi del 2008 il Paese ha avuto una crescita economica significativa. Interrottasi per il Covid, ma già ripartita. Può contare su una popolazione molto giovane e questo rappresenta un indubbio vantaggio competitivo anche, se non soprattutto, con la Cina. I problemi al suo interno non mancano: considerandone la vastità e l’eterogeneità, il fenomeno delle disuguaglianze e delle povertà è tangibile. Tuttavia, le aspettative sono assai elevate. Non è certo un caso che gli Stati Uniti vedano in Nuova Delhi un alleato strategico sulla scena globale. Con cui consolidare rapporti avviati da tempo.
Secondo le ultime stime, l’India dovrebbe aver superato la Cina come nazione più popolosa del mondo, con circa 1,3 miliardi di abitanti. In ogni caso, da oltre settant’anni il Paese è la più grande democrazia del mondo.
Dopo l’indipendenza ottenuta il 15 agosto 1947, infatti, l’India ha adottato un sistema politico democratico basato su una Costituzione scritta che ha creato una repubblica parlamentare multi-partitica. Nella Costituzione indiana si ritrovano peraltro diversi tratti tipici delle carte fondamentali occidentali, tra cui il fondamento del potere politico nella sovranità popolare, esercitata attraverso libere elezioni; la separazione dei poteri; la protezione dei diritti fondamentali dei cittadini, tra cui la libertà di espressione, il diritto alla vita e alla libertà, l’uguaglianza davanti alla legge e la libertà di religione.
A fronte di queste caratteristiche che rendono l’India, almeno in teoria, un modello democratico tra i Paesi emergenti, la tutela effettiva di questi diritti, e in generale la linearità nel processo decisionale democratico, è complicata dalla eterogeneità geografica, linguistica e culturale del Paese.
Una grande eterogeneità complicata da gestire
Dal punto di vista geografico, l’India ha infatti una estensione tra nord e sud di oltre 3.000 chilometri, il che determina una grande varietà di caratteristiche geografiche, che vanno dalle catene montuose dell’Himalaya al nord, alle fertili pianure alluvionali del fiume Indo e del Gange, alle regioni desertiche del Rajasthan, alle foreste tropicali del sud. Ciò ha determinato nel corso dei secoli l’emergere di numerose minoranze linguistiche e culturali. La diversità linguistica, in particolare, è enorme, con oltre 1.600 lingue riconosciute ufficialmente, anche se esistono due lingue “comuni”, che sono l’hindi e l’inglese. A questo si associano diversi gruppi etnici (p.e. oltre agli hindu, i sikh, i cristiani, i buddisti…) tutte con tradizioni culturali, religiose e sociali distinte.
Per questo è opportuno parlare di “sub-continente” indiano, quando pensiamo al Paese, con un contrasto abbastanza evidente rispetto all’omogeneità culturale e linguistica del rivale storico, la Cina, caratterizzato per il 92% della popolazione dall’etnia Han.
Proprio per gestire questa grande eterogeneità l’India si è data un modello organizzativo federale, con 28 Stati ciascuno, dotato di un proprio governo e di un’assemblea legislativa, che sono poi rappresentati nella Camera bassa (Rajya Sabha) che, insieme alla Camera alta (Lok Sabha) eletta direttamente dal popolo, compone il Parlamento del Paese. Un punto chiave della democrazia indiana è che entrambe le Camere lavorano insieme per adottare leggi e approvare il bilancio nazionale. Questo implica che le elezioni che di volta in volta si tengono negli Stati modificano la composizione della Camera bassa, rendendo il processo decisionale del sistema politico alquanto complesso, anche all’interno della stessa legislatura.
La complessità della democrazia indiana è peraltro testimoniata dall’andamento dei dati economici del Paese. Formalmente, l’India è stato uno dei primi mercati emergenti ad abbandonare il modello di economia pianificata. Sin dal 1991, infatti, il Paese ha adottato politiche di liberalizzazione economica miranti a deregolamentare e aprire l’economia indiana al commercio internazionale, tramite la riduzione delle tariffe, e agli investimenti esteri. Ciò ha portato a un aumento della crescita economica, dell’occupazione e degli investimenti nel Paese; tuttavia, nonostante i buoni tassi di crescita economica registrati a partire dagli anni Duemila, il Paese non è riuscito a raggiungere gli stessi risultati della Cina, come è evidente dal grafico sottostante, che misura l’evoluzione del PIL pro capite dei due Paesi.

Questo a causa di numerose sfide socioeconomiche che il sistema politico ha faticato a risolvere, tra cui la povertà e l’analfabetismo di ampie fasce della popolazione, sicuramente aggravata dal permanere, almeno a livello culturale, della segmentazione della società in caste e con un serio problema di disuguaglianza di genere; cui si aggiunge una scarsa capacità di pianificazione e costruzione delle infrastrutture, che ha determinato un accesso limitato ai servizi di base, come l’acqua potabile e l’istruzione, nonché elevati costi logistici a carico del sistema delle imprese che si andava globalizzando.
Dopo l’impatto della crisi finanziaria globale del 2008-2009, l’economia indiana ha registrato una ripresa solida, con un tasso di crescita del PIL robusto, sostenuto da investimenti pubblici e privati, consumi domestici e un settore dei servizi in espansione.
Tuttavia, nel 2013 il progressivo abbandono da parte degli Stati Uniti della politica di espansione monetaria straordinaria (il c.d. quantitative easing) utilizzata come arma di contrasto alla crisi finanziaria, ha determinato una forte svalutazione della rupia indiana, che ha a sua volta comportato una diminuzione degli investimenti nel Paese e una marcata fase di volatilità finanziaria.
Per contrastare tale fenomeno, a partire dall’elezione di Narendra Modi al governo nel maggio 2014, sono state intraprese alcune importanti riforme strutturali, in particolare il lancio della Goods and Services Tax (GST), la prima tassa sul valore aggiunto di livello federale creata in India, che ha obbligato gli Stati ad abolire le restrizioni (ancora esistenti) ai commerci interni del Paese, stimolando a sua volta la rete logistica e infrastrutturale.
2022: cresce il PIL pro capite più di quello cinese
Il novembre 2016 è stato un altro momento di svolta significativo per l’economia indiana, con l’annuncio improvviso della “demonetizzazione”, ossia l’abolizione (nel giro di pochi giorni) del corso legale delle banconote ad alto taglio e la loro sostituzione con nuove fattispecie, al fine di combattere l’evasione fiscale e incoraggiare l’economia digitale. Questa misura ha avuto un impatto temporaneo negativo sul sistema finanziario, generando una restrizione di liquidità che ha indubbiamente pesato sul consumo privato, come evidente nei dati sulla crescita del PIL pro capite del periodo. A questo si è aggiunta, nel corso del 2019, una limitata crisi bancaria, generata in particolare nel settore dei prestiti non bancari, durante la quale alcune istituzioni finanziarie, operanti al di fuori della regolamentazione delle banche tradizionali, hanno sperimentato problemi di insolvenza, aggravando la restrizione creditizia già determinatasi con la demonetizzazione.
A cavallo tra il 2020 e il 2021 è poi arrivato l’impatto della pandemia da Covid-19, che ha colpito duramente l’economia indiana, portandola a un rallentamento significativo molto più pronunciato rispetto, ad esempio, al dato cinese. Settori chiave come il turismo, l’aviazione, l’ospitalità e l’industria manifatturiera hanno subito gravi contraccolpi, nonostante le misure di stimolo implementate dal governo per mitigare gli impatti economici e promuovere la ripresa.
Ripartenza che però non ha tardato a manifestarsi nel corso del 2022, con un tasso di crescita del PIL pro-capite superiore a quello cinese; questo grazie a una serie di fattori, in gran parte strutturali, che stanno sostenendo nel medio periodo la performance economica del Paese.
Innanzitutto, oltre alla già citata introduzione della GST che ha contribuito ad avviare il mercato interno indiano, il governo negli ultimi anni ha semplificato le norme fiscali e le licenze commerciali. Il lascito della demonetizzazione ha poi spinto alla digitalizzazione dei pagamenti, mentre le riforme bancarie che hanno fatto seguito alla crisi del 2019, con nuove norme di classificazione degli attivi, il rafforzamento dei meccanismi di vigilanza e la promozione di una migliore gestione dei rischi, hanno rafforzato il settore finanziario, interessato anche da un consolidamento realizzato con fusioni e acquisizioni.

Durante l’ultimo anno l’economia indiana ha dunque mostrato segni di ripresa, trainata dalla risalita dei consumi domestici, dagli investimenti in infrastrutture e dai progressi nel settore agricolo. Una serie di riforme sul mercato del lavoro e il miglioramento dell’efficienza della logistica nel Paese, spinto dagli investimenti infrastrutturali che continueranno, secondo i piani del governo, anche nel 2023-24 (programma National Logistics Policy, inaugurato nel settembre 2022), stanno inoltre gradualmente migliorando la competitività del settore manifatturiero, il grande punto dolente della crescita economica indiana nello scorso decennio.
Una popolazione giovane: asset fondamentale per la crescita
Ovviamente, l’India non è immune dal rallentamento del ciclo economico globale previsto nel 2023, con le esportazioni nette che daranno un contributo più debole alla crescita, anche se la domanda urbana per i servizi rimarrà relativamente forte. Allungando le proiezioni nei prossimi anni, ci si aspetta che il settore dei servizi rimarrà solido, spinto dal commercio al dettaglio, dia servizi informativi, dai trasporti e dal turismo. In aggiunta, nonostante potenziali criticità dovute a un cattivo avvio di stagione, il governo promuoverà investimenti per migliorare infrastrutture e sistemi di irrigazione nel settore agricolo.
Il vero punto di forza strutturale dell’economia indiana, tuttavia, è il suo tasso di crescita demografica, che somiglia molto a quello cinese a cavallo degli anni Novanta del secolo scorso. Entrambi i Paesi hanno una significativa quota di popolazione giovane ma l’India, con una fascia di età inferiore ai 25 anni pari al 44% della popolazione, è in netto vantaggio rispetto alla Cina (29%). Inoltre, è evidente nei dati come la Cina veda ridursi la proporzione di popolazione in età lavorativa (15-64 anni), mentre l’India sta sperimentando una crescita lineare di questo asset fondamentale per la crescita economica. A conferma di ciò, si può infine notare come il divario tra Cina e India, per quanto riguarda la popolazione anziana, si stia allargando. Entrambi i Paesi, dunque, affrontano sfide demografiche significative, ma diverse: in Cina, l’invecchiamento della popolazione sta portando a una diminuzione della forza lavoro e a un aumento del carico pensionistico; in India, le sfide includono la necessità di fornire opportunità di lavoro e servizi per una popolazione giovane in rapida crescita, nonché le questioni legate alla riduzione della povertà e della disuguaglianza.
Al di là delle politiche necessarie a gestire queste diverse dinamiche demografiche, le implicazioni per la crescita di lungo periodo sono tuttavia evidenti: mentre in Cina si sta osservando un aumento dell’età media della popolazione, con una larga frazione di persone che escono dalla forza lavoro senza essere opportunatamente sostituite (almeno in termini di numeri), dunque riducendo il potenziale di crescita, al contrario l’India sembra poter sfruttare il fattore demografico che, se adeguatamente combinato con riforme efficaci, può portare a una crescita esponenziale del Paese, minacciando la forza commerciale della Cina nel contesto asiatico e mondiale.
Un alleato chiave per gli USA
È anche per queste ragioni che gli Stati Uniti vedono nell’India (che, lo ricordiamo, è anche una potenza nucleare), un alleato nella politica di “friendshoring” inaugurata dopo l’invasione russa dell’Ucraina. In un mondo che sempre di più si divide tra diversi “blocchi”, e con la rivalità strategica con la Cina sullo sfondo, l’India, con il suo sistema democratico e il suo potenziale di crescita, rappresenta per gli Stati Uniti, insieme a Corea del Sud e Giappone, un alleato chiave sul continente asiatico.
In particolare, e non a caso, l’alleanza “Quad”, il Quadrilateral Security Dialogue composto da India, Stati Uniti, Giappone e Australia, è emersa come un’importante piattaforma per affrontare le sfide di sicurezza nella regione dell’Indo-Pacifico. L’alleanza, nata nel 2007 e inizialmente focalizzata sulla sicurezza economica nell’area, ha gradualmente allargato il suo campo di azione ai temi della sicurezza e della cooperazione militare, anche dal punto di vista dell’intelligence. Sempre non a caso, dal 2021, l’alleanza ha visto nascere un “Quad Plus”, esteso a Nuova Zelanda, Corea del Sud, e Vietnam.
In questo contesto è dunque corretto parlare di “ambizioni” per la democrazia indiana, non solo dal punto di vista economico, alla luce del grande potenziale di crescita del Paese nel prossimo decennio, ma anche nel nuovo ordine che fatalmente si delineerà una volta che la crisi ucraina avrà fine, e i rapporti tra le grandi potenze mondiali troveranno, auspicabilmente, una qualche forma di nuova normalizzazione.