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ARTICOLO | Tema di "Atlantide" n. 37 (2016)

Migrazione, diritti umani e pluralità delle culture

Fenomeni migratori mettono in crisi la cultura europea dell’accoglienza. Se domina il nihilismo - libertario o fondamentalista - come si potrà farvi fronte? I valori costituzionali comuni all’Occidente sono messi alla prova

1. La società occidentale tradizionalmente libera e plurale non ha fatto fatica, in un primo tempo, a riproporre i propri valori – che per semplicità possono essere riassunti nell’espressione diritti umani – alla ondata di migrazioni che ha vissuto il continente europeo a partire dagli anni Ottanta e che ha profondamente cambiato il volto dei nostri territori. 
Tutti ricordiamo le scelte compiute negli anni Novanta dalla Corte Costituzionale italiana, che ha riconosciuto anche agli immigrati i diritti fondamentali che competono a ogni uomo (e non solo ai cittadini) quali il diritto alla salute o quello all’istruzione e a essere trattato secondo il principio di eguaglianza e di non discriminazione, pur in presenza di situazioni giuridiche diverse (cittadini e non, immigrati legali e illegali, ecc.)
Sostenuta da un tasso di sviluppo dell’economia tendenzialmente crescente e da una integrazione europea in progress, capace di assimilare nei vari Stati dell’Unione le diverse ondate migratorie, provenienti dall’Africa e causate dal sottosviluppo, l’Europa ha sentito il problema dell’immigrazione come essenzialmente economico, pur accompagnandolo con una riflessione incentrata sul tema dell’integrazione culturale, capace di generare convivenza pacifica e benessere per tutti. In materia, il dibattito ha conosciuto – e in parte ancora conosce – le sfaccettature delle diverse politiche nazionali e si è concentrato sui pro e sui contro dei vari modelli: quello inglese, di tipo multiculturale in senso proprio; quello francese di tipo integrazionista (non privo di elementi di forzatura); quello tedesco basato sulla adesione (spesso formale) ai valori costituzionali come limite ultimo ma efficace alla diversità insita nelle varie etnie di provenienza. Si pensi – per quanto riguarda questo Paese – ai dibattiti sulla opportunità di far conoscere a chi chiedeva asilo o permessi di soggiorno i valori della Carta costituzionale tedesca, quel Grundgesetz che ha fondato prima la nuova Germania uscita dalla guerra e poi l’unificazione, dibattiti che hanno portato a considerare minoritari coloro che vedevano in tale richiesta una forma di “colonialismo” culturale.
Al presente, le cose sono profondamente cambiate. La crisi economica ha messo alle strette le dinamiche di accoglienza dei migranti basate sulla presenza di pezzi del mondo del lavoro non praticati dagli autoctoni, la povertà è cresciuta in modo esponenziale, gli Stati hanno visto acutizzarsi i fallimenti dei loro sistemi di welfare già problematici nei tempi dell’espansione economica, in quanto spesso fondati sull’aumento del debito pubblico. Il terrorismo – che ha portato al cuore dell’Europa i propri attacchi e la guerra in diverse parti del mondo – e la terza guerra mondiale a diversa localizzazione, hanno provocato un intensificarsi del fenomeno migratorio. E, come era naturale aspettarsi, cambiando di segno, l’immigrazione sempre più imponente e pervasiva ha messo in crisi molto dell’impianto culturale che, pur con tutte le sue varianti e le sue differenziazioni, aveva tutto sommato tenuto nei decenni precedenti.

2. Che cosa, propriamente, è andato in crisi? Si potrebbe dire che la crisi culturale ha toccato l’impostazione di fondo dell’approccio alla diversità che si andava imponendo con l’immigrazione, basata sull’idea di una società aperta, plurale e libera, cioè capace di tollerare una differenziazione anche radicale di approcci in nome del concetto milliano di libertà, quella che – quasi tautologicamente – comportava che tutto si potesse fare salvo ciò che mirasse ad interferire con l’altrui libertà. Sottostà a questa visione una concezione strutturalmente individualistica dell’esercizio della libertà e del concetto stesso di uomo, quello che – secondo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino – nasce ed è libero e uguale nei diritti. Principio certamente vero se non è confinato dentro un orizzonte individualista e materialista che ne determina il senso ultimo e la direzione applicativa.
Tale visione era già stata messa in crisi agli albori del costituzionalismo del secondo dopoguerra, che aveva affidato la tutela ultima dei diritti fondamentali alle Carte Costituzionali, moderna versione positivizzata del diritto naturale come limite alla libertà, nella consapevolezza di limiti intrinseci all’esercizio libero dei diritti individuali, non riconducibili alle scelte del sistema politico e delle fragili logiche della maggioranza. Ma, come spesso accade, questa prima scossa di terremoto nel settore dei diritti umani fondamentali si era poi assestata lasciando inevase molte questioni relative alla natura e al fondamento dei diritti e alla loro necessità di adeguarsi ai contesti mutevoli di società in evoluzione.
E, così, è poi successo che crisi economica e guerra abbiano fatto esplodere con violenza la contraddizione di un sistema democratico e costituzionale basato sulla libertà intesa come valore positivo ma, d’altro canto, incapace di dirne con chiarezza i limiti: aver opposto libertà e diritti al limite, quasi che esso sia di per sé esterno ai primi due fattori e con essi in controtendenza, ha avuto come esito la demonizzazione dello stesso e la sua totale delegittimazione, anche quando esso fosse imposto dalla legge o, persino, individuato come legittimo dai custodi delle Costituzioni, le Corti Costituzionali.

3. Se questa parabola può e deve ora considerarsi in via di esaurimento, se oggi non solo è finita l’epoca del multiculturalismo come convivenza di gruppi tra loro separati ma si è anche evidenziata in forma tragica l’impossibilità di integrare forzatamente tali gruppi etnici e di controllarne l’intrinseca violenza (si pensi ai fatti di Colonia ma anche alle continue violazioni dei codici penali a causa di culture profondamente antifemministe), se le economie dell’Occidente non sono più in grado nemmeno di offrire quel sostegno materiale che ha fin qui consentito agli immigrati di sentirsi – in qualche modo – parte di un sistema finalizzato al benessere di tutti, che ne resta delle politiche di integrazione, siano esse economiche, sociali o culturali?
Il lavoro che ci aspetta per rispondere a questa domanda è a un tempo oscuro ed entusiasmante.
È oscuro perché costringe ad addentrarsi nei meandri più profondi dell’odierno Occidente, ricercandone le radici. Il tema delle radici, religiose o filosofiche che siano, è stato sviscerato al tempo della fallita costituzione europea la quale, come è noto, ha espunto le radici cristiane dal testo, poi non ratificato dagli Stati membri e confluito nel Trattato di Lisbona. In quella accezione, tale tema si era poi rivelato come inadatto a leggere il presente, un presente libero e plurale, ostile a ogni fondamentalismo.
Il momento presente, tuttavia, quasi costringe a riandare, se non al tema delle radici cristiane, almeno a quello delle radici della cultura europea, da sempre aperta agli apporti di culture diverse e a riporsi – in modo compatibile con una società che si fa sempre più liquida – le domande di fondo che reggono la convivenza, domande che riguardano ogni uomo e non solo chi in Europa è stato generato. Forse è tempo di rivisitare, in termini comprensibili all’uomo di oggi, la domanda metafisica sulla natura dell’uomo, domanda che era stata sterilizzata anche nel passato recente in quanto fattore di divisione, una domanda divisiva e non inclusiva, relegata negli spazi più intimi della coscienza senza possibilità di incidenza alcuna sui modi di regolare la convivenza. E se il dibattito etico, pur fiorente, vive di vita propria e quello bioetico ammette solo ampliamenti della sfera dei diritti, mai limitazioni, complice la globalizzazione dei sistemi di tutela, uno dei quali sempre finisce per ammettere con lecite pratiche vietate in un altro, perché tornare a riflettere sulla natura ultima dell’essere umano?
Per aprirsi a un cenno di risposta, va detto che, se l’uomo è un nulla, elemento contingente di una natura solo materiale, come diviene possibile difenderlo dai soprusi di culture fondamentaliste e dal tentativo di annientamento fatto in nome dei radicalismi religiosi? Pur con tutti i distinguo che non vale la pena in questa sede riproporre, se domina il nihilismo di stampo libertario o di stampo fondamentalista, come si potrà far fronte all’acutizzarsi dei fenomeni migratori che mettono in crisi la cultura europea dell’accoglienza?
In questa oscurità occorre finalmente addentrarsi alla ricerca di risposte che, prima di essere socialmente accettate come fattori determinanti di un nuovo umanesimo, siano in grado di soddisfare le domande ultime del cuore umano, di tutti i cuori che popolano l’universo multiculturale delle nostre città.
Strumenti di tale ricerca possono essere i valori costituzionali comuni all’Occidente, da rileggersi non nell’ottica del puro positivismo ma come essi in realtà sono, espressione di una concezione di uomo che sfugge alla tirannia delle ideologie – totalitarie, fondamentaliste o libertarie che siano. Ma anche tutte le altre scienze, da quelle umane a quelle esatte, possono essere, ciascuna nel proprio ambito, luoghi dove coltivare tale ricerca, nella sequela di maestri che non mancano di offrire esempi di alta ragionevolezza, di grandezza d’animo e di apertura.
In questo senso si tratta di un compito entusiasmante, sia per chi proviene dal mondo laico sia per chi affonda la propria identità nelle diverse proposte religiose oggi presenti nel contesto sociale. Va riscoperta, nella dimensione personale e in quella comunitaria, la verità ultima di sé e il senso della convivenza, una convivenza non oppressiva, solidale, aperta al diverso fino a quella apertura estrema che viene chiamata misericordia, dare ai miseri – cioè a tutti – un cuore.

4. E, allora, per quanto riguarda gli ordinamenti giuridici, come non riconoscere che tutto l’impianto sociale degli stessi rispecchia, sia pure in filigrana, proprio il valore ultimo della misericordia, quasi una rilettura in chiave giuridica delle opere di misericordia che ora, in questo anno, ci vengono costantemente riportate all’attenzione? Prima di diventare assistenziali, gli ordinamenti sociali dell’Occidente sono stati creati per dar voce a quella esigenza di dignità che caratterizza l’umano, non primariamente come pretesa ma piuttosto come anelito a garantire a tutti – pur dentro logiche di libertà – una esistenza libera e dignitosa. Essa non si ferma alla mera libertà negativa ma entra nella sfera dell’altro per una mossa di solidarietà, di passione per il destino comune, di domanda di socialità, di essere soci, cioè amici, capaci di accoglienza e di interesse gli uni per gli altri. La mera visione libertaria non ha bisogno di simpatia e stenta a riconoscere che gli uomini sono stati messi insieme per completarsi e per arricchirsi nello scambio di beni materiali e morali.
Tutto questo comporta una valorizzazione dei concreti legami sociali che sono presenti nei diversi contesti. Non una libertà astratta, fatta di autonomie senza connessioni, ma incontri reali di persone e di gruppi che possano condividere l’esistenza, senza pregiudizi, senza la violenza di verità affermate prima e oltre lo sguardo umano che apre gli uni altri altri. Uno sguardo che non sia velato dall’indifferenza. Tutto questo c’è nelle nostre Carte che fondano gli ordinamenti e la convivenza. Si apre uno spazio grande di ricerca e di dialogo, che è responsabilità di tutti, fino a generare leggi più giuste, più capaci di segnalare a chi entra nei nostri contesti che per tutti ci può essere spazio se questo spazio, ospitale, può essere condiviso e non violentato.

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